In Nuova Zelanda, il governo labourista di Jacinda Ardern ha approvato una riforma del lavoro piuttosto audace, unica nel suo genere in tutto il mondo. La riforma ha sostanzialmente trasformato in legge gli accordi di equa retribuzione, i cosiddetti Fpa (Fair pay agreements). Cosa sono? In sostanza sono degli accordi collettivi stipulati non più tra un sindacato e un singolo datore di lavoro ma tra un sindacato e ogni organizzazione datoriale di settore, di fatto una ricentralizzazione del processo di contrattazione collettiva che mira a fissare un limite minimo retributivo e di condizioni contrattuali in tutti quei settori che hanno paghe molto scarse e un basso numero di iscritti al sindacato, una protezione per i lavoratori più vulnerabili, in particolare impiegati i appalti e subappalti. I datori di lavoro, con questa nuova riforma, saranno obbligati a sedersi al tavolo della contrattazione collettiva e non potranno più abbandonare il processo e, nel caso dovessero ritirarsi, è previsto l’intervento di un’autorità statale indipendente volto a fissare degli standard minimi di condizioni contrattuali e retributive.

“La riforma è interessante perché è la prima volta in tempi recenti che si assiste a una ri centralizzazione dei processi di contrattazione collettiva”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Andrea Garnero, economista del lavoro presso la direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’Ocse. “Dagli anni ’70 in poi abbiamo assistito sempre di più a una decentralizzazione di questi processi e abbiamo visto la copertura dei contratti collettivi scendere progressivamente i tutti i Paesi. Questa riforma è molto interessante perché per la prima volta si assiste a un’inversione di tendenza e a un atto concreto”.

La riforma neozelandese in sostanza cerca di ricostruire un impianto complesso che nel corso degli ultimi decenni è stato via via smantellato. “In Nuova Zelanda hanno cercato di trovare un equilibrio tra il lasciare le parti libere di contrattare e in qualche modo incentivarle a seguire un determinato percorso e sulla carta l’equilibrio trovato è interessante perché si spinge affinché le parti trovino una posizione di convergenza”, prosegue Garnero che poi nota: “Il sindacato può richiedere la negoziazione del contratto collettivo e da quel momento il ministero informa le parti datoriali che possono delegare un rappresentante per sedersi al tavolo a discutere e raggiungere un accordo da siglare. Se però nessuno si presenta o se l’accordo non viene raggiunto, in quel caso le parti possono chiedere a un’autorità indipendente che si è occupata di seguire questo Fair Pay Agreements, di determinare degli standard minimi che saranno considerati equi e questa è la vera novità di questa norma che non esiste in altri paesi”.

È un modello che potrebbe essere esportato in Italia o negli altri paesi europei? La risposta è parzialmente sì. Questi Fpa, infatti, possono essere molto utili in contesti in cui non esiste alcun tipo di contrattazione collettiva di settore, come negli Stati Uniti, ma sarebbero meno impattanti in realtà dove questo approccio esiste già, come l’Italia, anche se strutturato in maniera differente: “Se penso all’Italia, sarebbe necessario introdurre un’autorità riconosciuta da tutti gli attori in campo nella contrattazione collettiva, legittimata a intervenire, potrebbe essere un ruolo del Cnel se volessimo, ma da noi sono gli stessi attori che frenano un po’ questo tipo di processo”, spiega Garnero – A oggi non esiste alcuna regola in Italia che definisca esattamente chi è titolato a negoziare i contratti collettivi nazionali, quindi si è creato un fenomeno di concorrenza di nuove sigle che nascono e si inventano sia lato sindacale, ma ancora di più da quello datoriale, che portano a uno sfarinamento del sistema”.

In Italia la contrattazione collettiva è storicamente solida, ma negli ultimi anni, in particolare dalla grande crisi finanziaria del 2008, si è assistito alla proliferazione di centinaia di “contratti pirata”. Prima della crisi, infatti, esistevano circa 300 Ccnl (contratti collettivi nazionali di lavoro). Oggi siamo a 1000 e questi 700 ulteriori contratti, in realtà applicati a pochi lavoratori, di fatto giocano un ruolo di minaccia esterna che incombe, una spada di Damocle che la parte datoriale può usare contro i sindacati per rispondere a richieste troppo pressanti. “Questi contratti pirata nascono per portare una soluzione a un problema esistente, ovvero introdurre delle modifiche a dei CCNL magari non integralmente applicabili alla situazione di alcune zone del Sud Italia. Il tema iniziale esiste, il problema è che questi contratti sono una risposta totalmente sbagliata”.

Il salario minimo potrebbe risolvere le storture del mercato del lavoro italiano? Secondo Garnero non basterebbe. “Non è necessaria l’introduzione del salario minimo per avere delle retribuzioni eque. Nei Paesi scandinavi non esiste, ma hanno una contrattazione collettiva solida e abbastanza stabile, dell’Italia non si può dire lo stesso. Il problema è che come tutti gli strumenti, il salario minimo può essere utile perché darebbe un riferimento più netto in un quadro molto scomposto, ma purtroppo non potrebbe comunque combattere fenomeni come il part time involontario, il lavoro nero o le finte partite iva. Andrebbe trovata la via italiana al salario minimo e per esempio al precedente Governo era stata suggerita una forma di sperimentazione, perché è vero che in Italia ci sono settori che non avrebbero bisogno del salario minimo, come la meccanica o la chimica, ma sarebbe stato possibile iniziare a introdurlo invece in questi settori che mancano totalmente di contrattazione collettiva, per poi valutare”, conclude Garnero.

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