Meno contributi a carico delle imprese, costo del lavoro più basso, aziende più competitive, maggior crescita economica. Giusto? Non proprio. Su questo mantra, tanto semplice quanto traballante, si sono basati anni di propaganda e richieste delle associazioni imprenditoriali. Il fatto è che sparare ad alzo zero sul costo del lavoro è facile, non costa nulla e anzi evita agli imprenditori di metter mano al portafoglio per ammodernare impianti e processi produttivi. Lo ha fatto lunedì, per l’ennesima volta, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che in un’intervista a La Stampa ha affermato che in questo momento gli imprenditori sono disposti a concedere qualcosa solo in termini di welfare aziendale (detassato) ma niente in busta paga. Gli aumenti, ha spiegato il leader degli industriali, possono arrivare solo con un aumento della produttività. Eppure due analisi recenti di Martin Sandbu, giovane editorialista del Financial Times, e dell’economista Paul De Grauwe mostrano come quello del contenimento del costo del lavoro per favorire la crescita sia un falso mito. Che alla lunga finisce per danneggiare tutti.

Comprimere il costo del lavoro riduce la produttività – L’ultimo libro di Sanbu, in libreria da pochi mesi (non ancora in italiano), si intitola The economics of belonging. Analizza la situazione attuale e le problematiche dell’economia capitalistica e suggerisce alcune ricette per superare questa fase di disamore della maggioranza della popolazione occidentale nei confronti del libero mercato. Tra le altre cose spiega come comprimere il costo del lavoro finisca invece per avere un effetto negativo sulla produttività e la capacità di competere. Il ragionamento è piuttosto semplice. Un costo del lavoro più alto spinge le aziende a spostarsi verso modelli produttivi più avanzati, a fare più investimenti. Finché la gente viene pagata poco le aziende si adagiano su produzioni a basso valore aggiunto.
E’ soprattutto agendo sui salari dei lavoratori meno qualificati, e quindi riducendo il gap rispetto a quelli di fascia alta, che si riesce a spingere le imprese verso modelli produttivi più efficienti. Questa logica sta, ad esempio, alla base del rialzo del salario minimo deciso in Gran Bretagna nel 2015. Come ammesso in un secondo momento da un esponente del governo britannico, “alzare i salari può spingere gli imprenditori a far investimenti che altrimenti non avrebbero bisogno di fare”. Il rovescio della medaglia è che impianti più efficienti richiedono generalmente meno addetti. Il danno occupazionale però esiste se rapportato al singolo caso specifico. Non in generale. Anzi, i Paesi con la maggiore produttività sono anche quelli dove la disoccupazione è più bassa.

Gli effetti positivi (per tutti) di un reddito universale – Nell’ottica delle azioni da intraprendere, Sandbu spende parole favorevoli anche per un reddito universale di base. Uno strumento che, dopo decenni di continua perdita di potere contrattuale dei lavoratori, ribilancia almeno in parte gli equilibri delle relazioni nel mercato del lavoro. Un reddito minimo garantito consente infatti a lavoratore di rifiutare le offerte più scandalosamente al ribasso ed eventualmente anche di investire sulla sua formazione per ripresentarsi sul mercato del lavoro con nuove competenze. Nel lungo termine un beneficio per tutta l’economia. Il reddito di base è anche un modo per fuggire da quella che viene definita la trappola della precarietà in cui il lavoratore è costretto ad accettare qualsiasi offerta e si trova nell’impossibilità di lasciare un impiego poiché rimarrebbe immediatamente senza soldi.
Sandbu giudica estremamente debole l’obiezione secondo cui la garanzia di un reddito induce le persone a non lavorare. Significa ignorare la differenza tra sopravvivere ed avere un buon tenore di vita, dimenticare l’importanza dello status sociale, il senso che può dare un’occupazione e il piacere stesso che può derivare dal lavoro, rimarca l’editorialista. Non esiste nessuna evidenza che la semplice possibilità di non lavorare porti le persone a non lavorare davvero. L’Alaska paga da anni i suoi cittadini grazie alle royalties derivanti dallo sfruttamento dei suoi giacimenti petroliferi e afferma di non aver registrato “alcun effetto sull’occupazione”.

E’ ora che gli imprenditori smettano di lamentarsi – A conclusioni non dissimili, forse ancora più radicali, arriva anche un economista di larga fama come Paul De Grauwe, uno dei più attenti studiosi delle unioni monetarie e dell’esperienza dell’euro. Nel suo I limiti del mercato, De Grauwe – che premette la sua fede nel libero mercato – afferma che “costi del lavoro elevati non portano necessariamente a problemi, possono anzi costituire un vantaggio“. In particolare, osservando la situazione dei paesi scandinavi, l’economista ribalta il rapporto causa – effetto. Un costo del lavoro alto non è il prodotto dell’alta tassazione ma è il segno dell’alta produttività raggiunta da questi paesi e non qualcosa che frena una crescita economica che potrebbe essere ancora maggiore.

Il progresso tecnologico favorito dagli investimenti permette al singolo lavoratore di produrre sempre di più e quindi di vedere crescere il suo salario. “Perciò”, scrive l’economista, “se ai datori di lavoro piace tenere basso il costo del lavoro riusciranno a farlo solo se si adopereranno per frenare il progresso tecnologico”. Stipendi più pesanti significano anche più risorse per lo Stato per scuole, formazione, benessere. Dunque una popolazione più istruita e una forza del lavoro più competitiva. Non sorprende quindi che non di rado i paesi del costo del lavoro è più alto siano anche quelli che meglio competono sui mercati internazionali. Gli alti salari, afferma De Grauwe, non sono un ostacolo alla competitività, al contrario la promuovono. Sbagliato quindi attaccare gli alti costi del lavoro “come le organizzazioni degli imprenditori hanno fatto per decenni. Invece di lamentarsi sarebbe meglio abbracciare la sfida”.

Meno contributi alzano i salari – Altre analisi citate dall’economista dimostrano come alti contributi previdenziali a carico delle aziende poco o nulla abbiano a che fare con il costo del lavoro finale. Questo perché quando i lavoratori devono direttamente farsi carico della loro condizione futura chiedono, comprensibilmente, stipendi più alti. Quello che esce dalla porta insomma rientra dalla finestra. I paesi dove i contributi sono più bassi finiscono per essere quelli con il costo del lavoro più elevato. Il Belgio è il paese europeo con i contributi a carico dei datori di lavoro più alti, la Danimarca quello dove sono più bassi. Eppure i lavoratori danesi costano alle aziende più di quelli belgi.

Articolo Precedente

Smart working, Landini (Cgil): “Non può eliminare orari e garanzie. Va regolamentato dentro nuovo statuto dei lavoratori”

next
Articolo Successivo

“Ridurre le ore di lavoro a parità di stipendio: la produttività ne guadagna”. La premier finlandese Marin rilancia la proposta

next