di Cristina Rolfini*

Brisbane, East coast, Australia
26 ottobre 2022, una bella mattina di sole

Mi alzo presto e, fatta colazione, mi accomodo alla postazione di lavoro, un tavolo sotto l’oblò da cui circola un po’ di vento. Portatile, wi-fi, taccuino degli appunti, e sono pronta per cominciare.

Il catamarano che mi ospita – una straordinaria occasione che mi dà la possibilità di vivere quaggiù per qualche mese – è attraccato in una marina appena fuori Brisbane, sul fiume che dà il nome alla città. Dal mio ufficio accanto al divanetto e alla cucina vedo altre barche intorno a me e un gran via vai di lavoro, diverso dal mio, piuttosto manuale, ma che mi fa sentire a mio agio, parte di una comunità.

Il lavoro in viaggio non è soltanto una necessità per rendere sostenibile a lungo termine la scelta “nomade” che ho intrapreso, ma anche un’opportunità di trasformare il viaggio stesso in uno stare, in un abitare, un’ancora che mi permette di aderire al luogo in cui sono. Può sembrare paradossale ma il lavoro rende il viaggio più autentico, lo libera dal turismo.

In questi sette anni, da quando, compiuti i cinquanta, ho lasciato il posto fisso in una casa editrice di Milano, vita, lavoro e movimento si sono intrecciate in varie forme, ogni volta diverse, adatte al luogo, al budget, agli alloggi, al freddo, al caldo, alla compagnia o alla solitudine. Canarie, Baleari, Sudafrica, Svezia, Armenia, Serbia, Seychelles, Polinesia francese, il computer è sempre venuto con me, punto di riferimento e di sicurezza, con i progetti didattici e i libri scolastici che costituiscono la mia professione di editor, ieri come dipendente, oggi come freelance.

Non è stato facile all’inizio, quando tutti erano negli uffici e io in giro vagabonda con il pc nello zaino a inventare un modo per realizzare il mio sogno. Ci è voluto un po’ per prendere le misure e accreditare una nuova affidabilità a distanza: come mi organizzo, dove mi sistemo, come rendere innocua la lontananza in modo che i colleghi continuino a trovarsi bene con me. Con la pandemia le cose sono cambiate, la percezione del remoto è profondamente mutata e io ho smesso di essere un animale esotico, ma la gestione del tempo e delle energie rimane una sfida quotidiana alta in una vita senza fissa dimora.

Non mi convince la definizione di “nomade digitale”, la trovo vaga e riduttiva. Mi piace il nomadismo come stile di vita: non ho bisogno di una casa, amo il cambio di scenario, l’incontro con persone e luoghi sconosciuti. Sono una “nomade esistenziale”, la tecnologia è un potente strumento al mio servizio, ma certamente non definisce la mia identità. Mi consente di essere una libera lavoratrice viaggiatrice, questo sì. E faccio di tutto per mantenere queste tre qualità, finché ne ho forza.

Va sfatata ogni idea romantica del nomadismo digitale, e in generale di questo tipo di scelte. Per essere vere e praticabili nel tempo richiedono un costante impegno per trovare le risorse necessarie e una certa fatica che il movimento senz’altro comporta, oltre che disciplina per rispettare le scadenze senza distrarsi troppo. Ma soprattutto richiedono una profonda determinazione al cambiamento. È stato lungo il cammino per arrivare qui, e paure e incertezze vanno affrontate ogni volta. È una vita che contiene una buona dose di precarietà e sradicamento, ma che in cambio offre una libertà e una pienezza cui oggi non rinuncerei per niente al mondo.

*Freelance con lunga esperienza nell’editoria scolastica. Nel blog “Pensieri Nomadi” scrivo dei miei viaggi, di cambiamento di vita, fuori e dentro: https://pensierinomadi.it/. Se vi fa piacere scrivermi rispondo a cristina@pensierinomadi.it.

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