di Marta Coccoluto

Fare del proprio Paese una meta prediletta per nomadi digitali, remote worker, smart worker, europei e internazionali. È questo uno degli obiettivi della recente legge approvata in Portogallo, la più avanzata nell’Unione europea in tema di smart working e diritto alla disconnessione.

La legge, che detta regole precise volte a ristabilire l’equilibrio perduto tra vita lavorativa e vita privata, determinato da un ricorso emergenziale al lavoro agile causato dalla pandemia, rientra in un programma più vasto per fare del Portogallo uno dei posti migliori al mondo dove i nomadi digitali possono scegliere di vivere, così come annunciato dalla ministra per il Lavoro e la Sicurezza sociale, Ana Mendes Godinho.

La notizia segue quanto dichiarato qualche settimana fa dal ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, che proponeva di estendere da tre mesi a un anno il visto turistico per “intercettare il turismo dei nomadi digitali che in futuro avrà un’importanza particolare”, sulla scia di provvedimenti simili già adottati da altri Stati europei, come Spagna e Croazia.

Una proposta importante che può creare le basi per attirare nomadi digitali e remote worker e ridisegnare la geografia degli smart worker, sempre più intenzionati a non rinunciare alle modalità di lavoro agile e alla possibilità di poter lavorare ovunque.

Ma proprio quest’ultimo aspetto, ovvero che le misure devono essere pensate per professionisti e lavoratori da remoto e non per i turisti – senza considerare che il turismo nell’Era pandemica è profondamente e irreversibilmente cambiato – sembra essere il vizio di fondo dell’approccio in corso.

L’errore che si rischia di commettere è considerare i nuovi target da attrarre come semplici vacanzieri e ripetere gli stessi errori che l’industria del turismo ha fatto nel passato, ovvero tenere i turisti – preferisco parlare di viaggiatori, togliendo una certa sfumatura malevola al termine turista – completamente avulsi dal contesto sociale e slegati dalle comunità locali.

Fare di viaggiatori, nomadi digitali, remote worker e smart worker abitanti temporanei delle comunità, questa è la vera sfida.

Per vincerla è necessario lavorare insieme alle comunità locali per farne emergere l’identità, il proprio ruolo sociale e co-progettare un modello di accoglienza, di ospitalità e di sviluppo territoriale che parta da un valore condiviso, fortemente caratterizzante una comunità e il suo territorio.

Valorizzare un territorio per attrarre i nomadi digitali, significa comunicare qualcosa di così forte da spingere quelle persone – lavoratori, professionisti, imprenditori, semplicemente talenti e intelligenze, oltreché viaggiatori – a spostarsi e a scegliere di vivere in un luogo un tempo abbastanza lungo da innescare innovazioni sociali ed economiche significative.

Nomadi Digitali, il progetto di comunicazione che è diventato l’Associazione Italiana Nomadi Digitali ETS, ha già intrapreso a collaborare con diversi partner per la co-progettazione di un nuovo modello di destinazione turistica per nomadi digitali, che sia sostenibile e ad impatto sociale per le comunità che decideranno di farne degli abitanti temporanei e non dei semplici viaggiatori-lavoratori di passaggio.

Le vere opportunità economiche e sociali per un rilancio dei territori grazie al nomadismo digitale sono legate a una proposta coesa, condivisa, identitaria che sappia emozionare e raccontare in modo chiaro la visione di quella destinazione. Non una cartolina, ma un mix studiato di servizi, infrastrutture, opportunità e rapporti umani ben diversi dalle iniziative che in questi mesi sono spuntate in ordine sparso per provare a fare un po’ di marketing turistico, sfruttando un nuovo trend che così si è dimostrato di non conoscere realmente.

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