Nell’ottobre del 1922 all’interno del Partito Nazionale Fascista matura l’idea di compiere una grande azione dimostrativa, in grado di imporre definitivamente il Partito Fascista come una realtà politica centrale nel contesto dell’Italia post-bellica: l’idea è di far convergere le formazioni paramilitari del Partito su Roma, facendole muovere da varie parti d’Italia, dopo aver occupato importanti uffici pubblici in varie città. Si vuole così indurre il governo in carica, presieduto dal liberale Facta, a dimettersi, aprendo la strada per un possibile incarico a Mussolini.

Si tratta di un vero e proprio colpo di Stato, che in effetti viene messo in atto il 27-28 ottobre 1922, con l’arrivo a Roma di diverse migliaia di fascisti armati. Peraltro, non sarebbe difficile bloccare le “camicie nere” fasciste che si stanno dirigendo a Roma: basterebbe che il re, Vittorio Emanuele III, proclamasse lo stato d’assedio perché l’esercito venisse mobilitato contro i rivoltosi. Ma il re non firma il decreto che proclama lo stato d’assedio, che pure il presidente del Consiglio Facta gli ha presentato. La decisione del re dà – sostanzialmente – una qualche sorta di legittimità all’operazione fascista: quando Mussolini, la mattina del 30 ottobre 1922, si presenta al re, può chiedere il massimo, cioè l’incarico di nuovo presidente del consiglio. Vittorio Emanuele III, non sufficientemente turbato dagli eventi, accetta le condizioni poste da Mussolini, e gli conferisce l’incarico. Formalmente, la sostituzione di Facta con Mussolini sembra rispettare le procedure previste dallo Statuto albertino.

In poco tempo Mussolini forma un governo di coalizione, composto da una maggioranza di ministri fascisti o filofascisti (8 in tutto), da due cattolici di destra, da due liberali e da due democratico-sociali (un raggruppamento politico di destra). Il senso politico di tutto ciò è che Mussolini, capo di un partito (il PNF) che alla Camera ha solo 38 deputati (pari al 7% dei seggi), non solo ottiene la presidenza del consiglio, ma ha un governo formato in maggioranza da fascisti o da filofascisti. È chiaro che la prassi costituzionale, che vuole che un governo si formi essendo sorretto da una maggioranza espressa dalle elezioni, è del tutto disattesa. Mussolini stesso, con enorme aggressività, rimarca questo aspetto durante il discorso di presentazione del nuovo governo alla Camera (16 novembre 1922), quando davanti a molti deputati sgomenti dice: ”Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli…” (vivi applausi a destra; rumori; commenti; Modigliani: “Viva il Parlamento! Viva il Parlamento!”; rumori e apostrofi da destra; applausi all’estrema sinistra): “potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo voluto”.

La Camera, così apostrofata, vota la fiducia al governo Mussolini con 306 voti favorevoli e 116 contrari; il Senato fa lo stesso con 196 voti favorevoli e 19 contrari. Contemporaneamente sia la Camera sia il Senato approvano un disegno di legge di proposta governativa con il quale si concedono al governo i pieni poteri per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione.

Nonostante le forme costituzionali siano rispettate (c’è stato il dibattito parlamentare e poi il voto di fiducia), il primo governo Mussolini dev’essere considerato come l’inizio della fine del sistema liberal-democratico, una fine che verrà perfezionata nell’arco di tempo che va dal 1922 al 1925 quando il sistema politico italiano si trasformerà in una dittatura totalitaria a partito unico.

Letture consigliate: Giulia Albanese, ‘La marcia su Roma’, Laterza, Roma-Bari 2006; Emilio Gentile, ‘E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma’, Laterza, Roma-Bari 2012

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