Un libro pericoloso si aggira per l’Italia ed è bene che le persone di buon senso ne siano informate e prendano provvedimenti. Ad ogni livello!

Si tratta di Lettera alla tribù bianca, scritto da Alex Zanotelli (ed. Feltrinelli). Un libro che ricapitolando magistralmente cinquecento anni di colonialismo ed imperialismo europei, va al cuore della questione “guerra”: il suprematismo bianco, la colonizzazione dell’immaginario, la complicità di tanta parte di Chiesa cristiana in tutte le sue modulazioni di frequenza.

Un libro che parla al nostro presente, alle nostre responsabilità in maniera ineludibile, affrontando, tra gli altri, un concetto caro pure a Paulo Freire, quello di “eredità”: l’eredità insanguinata sulla quale è costruito il nostro irrinunciabile stile di vita, cioè di consumo.

Con i fascisti ai vertici dello Stato italiano (mentre scrivo non è ancora dato a sapersi se alla fine Giorgia Meloni diventerà o meno presidente del Consiglio dei Ministri) e il marasma nella galassia che dovrebbe-vorrebbe essere alternativa e che in ordine sparso si prepara a scendere in piazza per manifestare per la pace, questo libro è una occasione per decidere quali parole usare e quali scelte fare.

E’ insostenibile, per esempio, che a sinistra alcuni leader pensino di risolvere la faccenda come se il conflitto provocato dalla Russia in Ucraina fosse un accidente dovuto alle pulsioni egotiche di un vecchio pazzo e bastasse per tanto dire: la pace non è equidistante. Come a dire: vogliamo la pace, dunque dobbiamo battere i russi che sono i cattivi invasori. Lo sono e vanno battuti: non si può accettare la prepotenza di chi uccide per rubare. Ma bisognerebbe poi avere l’onestà intellettuale di erigere questo principio a principio universale e allora non ci si potrebbe che sentire altrettanto responsabili per avere lungamente fondato il nostro consorzio occidentale sul medesimo modo di operare.

Perché se è vero che la pace non è mai equidistante e lo storico discorso di Liliana Segre dell’altro giorno ce lo ha ancora una volta confermato, è anche vero che la pace (la sua ricerca, la sua essenza) è verità. La pace è fatta di verità e chi non è disposto a cercare la verità, chi non è disposto a sostenere il peso della verità, non è persona di pace, ma è persona di guerra, cioè di menzogna. Mutatis mutandis: come quelli che in Italia parlano di pacificazione nazionale senza pretendere la verità sulle stragi di mafia, sul terrorismo, etc.

La sinistra alternativa alla destra fascista avrà il coraggio della verità nel manifestare per la pace?
Avrà il coraggio di coniugare il bisogno di pace con quello di giustizia sociale e ambientale? O pace sarà soltanto un modo per tifare ancora e soltanto per la propria squadra del cuore? In tal caso sarà l’ennesima occasione sprecata. Ho seguito il percorso di mobilitazione della manifestazione convocata per il 5 novembre a Roma da una rete vasta di organizzazioni (dal Forum disuguaglianze Diversità alla Rete dei numeri pari) e non dubito che questo sarà l’approccio qualificante quella piazza: come si comporteranno i leader della “alternativa” alla destra?

Concludo tornando al libro di padre Alex, al quale mi hanno legato tratti importanti di cammino dalla Rete di Lilliput fino al referendum per l’acqua, perché vorrei che approfondisse tre questioni che ho focalizzato durante la lettura.

1. Si legge “Ma il riconoscimento del male compiuto deve spingere la tribù bianca ad abbandonare una strada di morte per intraprenderne un’altra che porti frutti di giustizia per tutti”, la prima questione: davvero dalla presa di coscienza del male può scaturire la reazione? A me pare una condizione necessaria, ma non sufficiente.

2. Si legge “Non stare in silenzio, ma alzati ed esci di casa, unisciti agli altri, scendi in piazza per chiedere al potere di cambiare rotta”, la seconda questione: davvero ancora pensi, Alex, che si possa chiedere al potere (istituzionale e non) di cambiare rotta, occupando le piazze? A me pare che i professionisti del potere (anche quelli che stanno nelle stanze delle istituzioni democratiche) siano abilissimi ad incassare, troncare, sopire, rinviare, neutralizzare, addomesticare.

3. Si legge “Chiedo perdono a voi giovani perché vi consegniamo un mondo gravemente malato e toccherà alla vostra generazione ripensare radicalmente questo nostro sistema economico-finanziario-militarizzato che opprime miliardi di persone”, la terza questione: comprendo le ragioni per le quali l’ultraottantenne padre Alex passi simbolicamente il testimone della lotta ai giovani (immagino i ventenni che animano il movimento dei Fridays for future, per esempio), ma in mezzo, tra lui e loro, ci stanno schiere di cinquantenni che meriterebbero una riflessione.

Sono quei cinquantenni che hanno cominciato a comprendere il mondo con la caduta del Muro di Berlino e hanno sperato che potesse iniziare un’epoca nuova, con meno guerra e più cooperazione, sono quelli di Seattle e Porto Alegre, sono quelli dei Social Forum, sono quelli della marcia a Sarajevo, quelli dei banchetti dell’equo e solidale, sono quelli che hanno fatto comunità, pensato globalmente ed agito localmente, che hanno piegato le proprie esistenze cercando traiettorie alternative alla dittature del denaro. Sono quelli che hanno osservato con crescente sgomento la climax che dalla prima guerra del Golfo, passando per Genova, ha portato all’Afghanistan, all’Iraq, fino ad oggi. Sono quelli che hanno provato a stare nelle Istituzioni democratiche facendo politica a livello locale e nazionale. Sono quelli che oggi, tutto considerato, si chiedono ancora che fare, per non fare qualcosa che sia soltanto impotente celebrazione di una pallida rendita di posizione morale e sociale. Oppure niente più.

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