La scadenza è domani, 27 settembre. E’ il giorno entro il quale il governo in carica – per quanto dimissionario – deve presentare alle Camere la Nota di aggiornamento al Def. Non era mai successo che l’appuntamento si intrecciasse direttamente con le elezioni politiche e che fosse, proprio per questo, così atteso dai mercati: i contenuti di quel documento, che è la cornice macroeconomica della legge di Bilancio, fotograferanno una situazione economica in rapido peggioramento. Con la crescita in calo di 1,5-2 punti rispetto alle previsioni della scorsa primavera e il deficit/pil che si gonfia sia per effetto del rallentamento sia per l’aumento degli interessi sul debito e per le spese “obbligate“: vedi l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione ma anche la proroga delle misure contro i rincari energetici messe in campo da Draghi, che andranno rifinanziate.

Risultato: lo spazio fiscale a disposizione del prossimo presidente del Consiglio per la manovra sarà praticamente inesistente. Non è un caso se Giorgia Meloni negli ultimi tempi si è detta contraria a un nuovo scostamento di bilancio ed è andata con i piedi di piombo sulle promesse elettorali ad alto costo, mentre il co-fondatore di Fdi Guido Crosetto non solo ha ammesso che “la flat tax al momento non è neanche in discussione” ma è arrivato a dire che, visti i tempi strettissimi, la manovra “deve essere una cosa fatta a quattro manicon il governo uscente.

Come sempre, il punto di partenza sono i numeri del Def dello scorso aprile, quando il Tesoro prevedeva per il 2023 una crescita del pil reale del 2,4% e un disavanzo che dal 5,6% del 2022 (a partire dal 2020 è salito a livelli elevatissimi causa aiuti Covid, complice la sospensione del Patto di stabilità) avrebbe dovuto scendere al 3,9%, con il debito/pil di conseguenza in calo dal 147 al 145,2%. L’invasione russa dell’Ucraina, il caro energia, l’inflazione e le mosse della Bce per contrastarla hanno stravolto completamente il quadro: le ultime previsioni danno per probabile una mini recessione, con il pil in calo già nel quarto trimestre 2022. Il dato complessivo per il 2023 si fermerà secondo l’Ocse a un +0,4%, dato identico a quello che risulta da una survey condotta da Bloomberg tra 34 economisti, mentre l’agenzia di rating Fitch qualche giorno fa si era spinta a stimare un calo dello 0,7% e S&P Global vede un -0,1%. Sommando anche l’incremento dei tassi che fa salire la spesa per interessi sul debito, ne deriverà un impatto molto negativo sul deficit/pil che rimarrà intorno al 5%.

Sono questi i numeri attesi nella Nadef che il ministero dell’Economia sta finendo di mettere a punto – solo nella parte tendenziale, visto che quella programmatica dipende dalle misure che verranno decise dal futuro esecutivo – sotto la guida di Daniele Franco. Vero è che la “regola del 3%” è ancora sospesa e si attendono le proposte della Commissione Ue sulla riforma del Patto, ma una legge di Bilancio che aumentasse ulteriormente l’indebitamento rischierebbe comunque di far salire la tensione sui mercati che per ora hanno accolto con indifferenza un risultato elettorale del tutto atteso. E la prima legge di Bilancio del probabile governo Meloni, che in teoria dovrebbe essere inviata al Parlamento entro il 20 ottobre ma inevitabilmente slitterà, partirà già ipotecata dalla necessità di prorogare detrazioni, abbattimento degli oneri di sistema e sconti fiscali per tamponare il caro bollette che colpisce famiglie e imprese. Il capitolo delle spese obbligate comprende anche la prosecuzione del taglio del 2% del cuneo fiscale che altrimenti scadrebbe a fine anno (e Meloni ha inserito un corposo sgravio tra le sue priorità) e una probabile riedizione della cassa integrazione gratuita.

Di spazio per le suggestioni da campagna elettorale, dall’ampliamento della flat tax all’aumento dell’assegno unico per i figli, non ne resta affatto. A meno che Fratelli d’Italia non intenda davvero trovare le risorse abolendo il reddito di cittadinanza e sostituendolo con uno strumento riservato a chi non può lavorare. Con due incognite: che fine faranno i molti beneficiari che per le loro caratteristiche sono difficilmente collocabili nel mercato del lavoro? E i lavoratori – uno su quattro – che guadagnano talmente poco da essere vicini alla povertà resteranno senza supporto?

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