In Italia l’11,8% di chi lavora è povero, e addirittura un quarto dei lavoratori italiani ha retribuzioni così basse da rischiare di diventarlo, finendo in una spirale che una volta su due è una condanna definitiva. I dati sono parte della fotografia scattata dalla commissione voluta dal ministero del Lavoro per individuare possibili soluzioni al problema. A partire dalla ridefinizione della mappa nazionale dei working poor, persone che pur lavorando rimangono al di sotto della soglia di povertà (vivono in nuclei il cui “reddito netto equivalente è inferiore al 60% della retribuzione mediana”). Una condizione che gli esperti riuniti dal ministro Andrea Orlando non imputa unicamente a salari spesso inadeguati, ma a un insieme di variabili che fanno della povertà una situazione dalla quale è sempre più difficile affrancarsi. A partire dal problema della durata dei contratti e dunque dei giorni effettivamente lavorati in un anno. Chi lavora per meno della metà dell’anno rischia di finire in povertà nel 75% dei casi, contro il 20% di chi ha un impiego per l’intera annualità. C’è poi la variabile relativa alla composizione familiare, che ancora una volta vede le donne come le più sfavorite e le più esposte al rischio povertà. E infine il problema redistributivo, alla luce del fatto che da noi solo il 50% dei lavoratori poveri è raggiunto da una forma di sostegno al reddito.

Cinque le soluzioni proposte dal gruppo di sociologi, giuslavoristi ed economisti, che al primo posto mettono l’esigenza di superare l’attuale dibattito sul salario minimo, dove le principali soluzioni sono l’estensione a tutti i lavoratori dei principali contratti collettivi o l’istituzione di un salario minimo per legge. “Opzioni dibattute da tempo che si scontrano con ostacoli politici e tecnici che da anni bloccano ogni lavoro”, scrive nel report presentato oggi il Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia. E allora ecco la proposta di una terza via, o se vogliamo di una fase preliminare, che suggerisce di sperimentare il salario minimo legale in aree circoscritte del mercato intanto che si continua a studiare la soluzione che potrà andare bene per tutti.

“Una volta fissato il minimo salariale per via legale o contrattuale, è essenziale che questo minimo sia rispettato”, scrivono poi gli esperti, che chiedono di ampliare gli sforzi sulla vigilanza, ispettiva ma anche attraverso un maggiore controllo documentale, “cioè basato sui dati che imprese e lavoratori comunicano all’Amministrazioni pubbliche”, anche per guidare con maggiore efficacia l’attività ispettiva stessa. Al terzo punto il Gruppo mette l’introduzione di un in-work benefit, e cioè di trasferimenti dello Stato per chi ha retribuzioni inadeguate, ripensando anche l’attuale platea di strumenti come Reddito di cittadinanze e Assegno unico per i figli, che su questo fronte non raggiungono tutti i soggetti in difficoltà.

E ancora, un incentivo per le imprese che rispettano lavoratori e regole, con l’attribuzione di un “bollino di qualità” per le aziende che applicano rigorosamente i minimi salariali, l’equità salariale tra donne e uomini, da accompagnare a una campagna informativa rivolta ai lavoratori per aumentare la consapevolezza, la conoscenza dei propri diritti e quella degli strumenti previdenziali. Da ultimo, la commissione mette in discussione gli indicatori utilizzati a livello europeo per fotografare il lavoro povero, che ad oggi permetterebbero storture come quelle che non permettono di inserire tra le persone in difficoltà chi ad esempio non è un lavoratore povero, ma siccome è l’unico percettore di reddito in un nucleo numeroso non arriva ugualmente alla fine del mese. Soluzioni, quelle proposte, che gli esperti chiedono di prendere in considerazione in modo unitario, perché, avvertono, altrimenti rischiano di non funzionare.

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