Sublime Wanna. La docuserie in quattro puntate sull’ex imbonitrice tv Wanna Marchi, sua figlia Stefania, il Mago di Nascimento, la Camorra, Dell’Utri, numeri del lotto a pagamento e Ozzano dell’Emilia, in onda da poche ore su Netflix, è di quelle che vanno fumate celeri in bing watching. Spaccato autentico di un evo italiano – gli ottanta/novanta – viepiù mitizzato modello filosofia Max Pezzali, Wanna è la descrizione intensa, rutilante, molto “touch of evil”, dell’operazione “quanto male ci ha fatto la tv” di quei lustri. Nata figlia di poveri contadini di Castel Guelfo (provincia orientale del bolognese), poi truccatrice di cadaveri (“mi misero in tasca una busta con un milione e mezzo, e io li contavo e li ricontavo”), ancora venditrice di creme dimagranti e alghe prima in una tv regionale (Telecentro) e successivamente su una tv privata nazionale (ReteA), la Marchi è scala, paradigma, e personaggio flamboyant del successo effimero misurato in miliardi di lire quando ancora non vi era ombra di web e gli investimenti finanziari ancora vivevano di titoli di Stato.

Avidissime, mamma e figlia, ma anche spendaccione (la prima galera, un anno e mezzo, a fine anni ottanta è per bancarotta fraudolenta dopo il fallimento della sua srl), il microcosmo Marchi&co da scalata al successo individuale (vedi Joy di David O. Russell e capisci cos’è il sogno americano attraverso gli spazzoloni) si trasforma in diabolico gangster movie (c’è un’amica ex camorrista della Wanna da brividi) passando per le tinte da realismo sociale. Bravi quelli di Fremantle, a partire da chi ha ideato l’approccio stilistico al tema (rapidità di montaggio, brevi enunciati narrativi rilanciati ogni dieci secondi verso i successivi, abile mescolanza tra interviste vis a vis e spezzoni d’epoca della Wanna ovunque in tv) e a ha condotto le interviste ai 22 protagonisti (compreso il fantomatico Mago do Nascimento recuperato in Brasile con lungo barbone hipster).

Perché la docuserie riesce a marcare l’insinuante e a tratti misterioso sottotesto del malaffare politico che si incrocia all’immoralità delle due protagoniste, del denaro che cresce nelle loro tasche parimenti alla decrescita di una quanto mai possibile onestà da venditrici. Marchi&co. passano infatti dalla vendita negli anni ottanta del agognato scioglipancia (c’è anche l’industriale che lo produceva e non c’è truffa) a metà anni novanta, con il supporto di un marchese vicino a Berlusconi e Dell’Utri, dei numeri del lotto venduti assieme a lettura di carte, amuleti e infine alla busta di sale da sciogliere in acqua per cacciare il malocchio. Marchi&Nobile non arretrano di un millimetro nemmeno di fronte a dieci anni di carcere scontati di persona. Credulone chi ci mandava i soldi, dicono loro.

Tv che mangia tv, scatole cubiche sparse in ogni angolo di case, come in un gorgo privo di una statica verità, con la televendita che sottrae denari agli imbambolati spettatori, a loro volta indignati davanti a Jimmy Ghione di Striscia che smaschera la truffa. L’atmosfera a livello visivo e cromatico è da nostalgia dell’analogico spinto (la sigla con musiche di Don Antonio va messa a memoria, ed oramai per ogni serie la ricetta è data), Wanna ha anche la capacità prettamente espressiva di concentrare sui visi e sui corpi delle due protagoniste una sorta di diabolico ghigno mefitico nascosto sotto quintali di trucco esasperato, lampade per strati di pelle marrone e chincaglierie preziosissime, opulenza nazionalpopolare, fregatura economicamente mortale ma anche allegoria dell’umano che mescola i visceri. Infine, ricordiamo l’eccezione di genere. Due donne truffatrici, che prima scalano la tv di allora relegando gli uomini, qualunque uomo, mariti, amanti, conduttori (Costanzo, Biagi, Baudo) e direttori tv, finanziatori discutibili, ai margini di un discorso sociale e culturale solo ed esclusivamente loro, unicamente femminile. E dopo tutto, la Wanna e la Stefania sono ancora inspiegabilmente in piedi.

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