“Ti ho fatto la campagna, le promesse sono promesse… ora dato che siamo io e te, vieni che te lo ricordo all’orecchio”. È una delle tante intercettazioni finite nell’inchiesta “Reset”, coordinata dalla Dda di Catanzaro, che stamattina ha portato all’arresto di 202 indagati tra cui il sindaco di Rende Marcello Manna, accusato di corruzione elettorale e per questo finito agli arresti domiciliari assieme al suo assessore ai lavori pubblici Pino Munno.

Attraverso lui, Manna avrebbe fatto promesse alla ‘ndrangheta. Il procuratore Nicola Gratteri e i suoi pm non hanno dubbi: la cosca D’Ambrosio ha condizionato “il libero esercizio del voto nella città di Rende per la competizione elettorale amministrativa del 26 maggio 2019, procurando voti utili alla candidatura di Marcello Manna che, infatti, risulterà (all’esito del turno di ballottaggio del 9 giugno 2019) eletto nuovamente sindaco”. Estorsioni, droga, usura, truffe per lucrare sui finanziamenti di Invitalia. C’è di tutto nell’inchiesta “Reset”. Ma i rapporti tra i clan e la politica sono senza dubbio la parte più interessante dell’indagine che ha consentito ai carabinieri, alla guardia di finanza e alla squadra mobile diretta da Fabio Catalano di scardinare il “Sistema Cosenza” facendo luce su quella che i magistrati hanno definito una “confederazione di ‘ndrangheta”, diretta dal boss Francesco Patitucci.

“Deve mantenere le promesse… io gli garantisco i voti… lui deve dire si o no, alle cooperative. Lui prende 20 famiglie, gli deve dare 20 posti di lavoro”. Funzionavano così le cose a Rende dove la politica andava a braccetto con i boss che non si accontentavano solo di qualche assunzione nelle cooperative gestite dal Comune. La contropartita avrebbe riguardato pure l’affare Palazzetto dello Sport. Massimo D’Ambrosio ne ha discusso con la moglie a cui ha raccontato dell’incontro avvenuto tra il fratello boss (Adolfo D’Ambrosio, ndr) e il sindaco: “All’epoca (Manna, ndr) ha detto… all’epoca non l’abbiamo potuto fare un’altra gara ha detto… se ti dico che tutti i giorni veniva la Dda qua… l’abbiamo dovuto chiudere questo cazzo di coso… mai lo chiudevamo e mai ce li cacciavamo di dosso… se ora ci vuoi tornare ha detto… ora io faccio la gara apro il bando… lui (il boss Adolfo D’Ambrosio, ndr) gli ha detto voglio la gestione… ci voglio fare il bar… il tabacchino… ha detto… portami questo qua e poi vedi che c’è pure… che puoi fare quella… una legge che adesso scade però fra poco che finisce aveva fatto già il governo prima… precedente… quella “Resto al sud” si possono avere cinquantamila euro a persona… trentacinquemila euro a fondo perduto… e gli altri li dovete… in otto anni… tu prepara ha detto la cosa il commercialista… poi noi alla Regione… questo ha detto lo possiamo fare in famiglia”.

Per il gip, il quadro al Comune di Rende è “sconcertante”: “Manna, – si legge nell’ordinanza – oltre che sindaco, è avvocato penalista, e tale posizione qualificata determina una maggiore consapevolezza non solo dei soggetti con cui interloquiva, ma anche dell’illiceità degli accordi”. Il collante tra il sindaco e i D’Ambrosio sarebbe stato Pino Munno, l’assessore ai lavori pubblici, uno che “non chiude mai la porta”. È lui, secondo i pm, che per conto di Manna ha stretto l’accordo sul Palazzetto dello Sport. “Io sto portando a Manna e a Munno”. Era il leitmotiv di Massimo D’Ambrosio intercettato dagli investigatori che, dalla sua voce, sentono pure che ha rifiutato i “classici 100 euro a voto” preferendo “altre “utilità” più redditizie.

Se l’accordo lo ha fatto l’assessore, il sindaco di Rende ne era parte integrante: “L’esame congiunto di tutte le emergenze indiziarie – scrive il gip – esclude che il Munno aveva semplicemente millantato la disponibilità del Manna” che, seppur incensurato, secondo il giudice per le indagini preliminari ha dimostrato “predisposizione a delinquere scendendo a patti con membri di un’associazione mafiosa, in particolare col gruppo D’Ambrosio”. Di Manna avevano parlato alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi il pentito Adolfo Foggetti secondo cui il politico locale sarebbe stato sostenuto dai clan anche nelle elezioni del 2014: “Con riferimento al comune di Rende – disse il collaboratore –posso ulteriormente riferire di questioni che riguardano l’avvocato Macello Marcello. Tutti gli appartenenti al clan federato Rango-Zingari e Lanzino-Ruà si sono mobilitati per fare la campagna elettorale all’avvocato Manna, ad eccezione di Maurizio Rango”. Sono passati sette anni da quelle dichiarazioni confermate, secondo la Dda, dalle intercettazioni finite nell’inchiesta “Reset”.

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