Inizia con un respiro ironico apocalittico flebile flebile, e un pipistrello vero che vola in sala, Venezia 79. White Noise, il film di Noah Baumbach con Adam Driver tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo, apre il Concorso per il Leone d’Oro 2022 ma non convince un granché. L’applausometro alla primissima delle otto del mattino segna zero applausi a fine proiezione. Anche se a zero stanno pure i fischi. Il primo film targato Netflix che nella storia apre un festival di cinema, elargisce poche certezze e molte perplessità. Riprendendo pedissequamente il romanzo di De Lillo, Baumbach imbastisce un discorso sulla paura della morte e sui tentativi di speranza o salvezza, collettiva e individuale, per evitarla o quantomeno attenuarne l’impatto psicologico dei singoli. Non a caso, o magari davvero per caso, White Noise è zeppo di mascherine, quarantene e perfino di una specie di estemporaneo lockdown. Ambientato in pieni anni ottanta, quindi senza web, social e telefoni mobili, ma con sempiterni schermi della tv appesi ovunque, l’undicesimo lungometraggio di Baumbach è il racconto letteralmente in tre atti della vita del professore universitario Jack Gladney (Driver), esperto supremo di Hitler senza sapere una parola di tedesco, in un ateneo privato di una tranquilla città dell’Ohio dove c’è pure un docente di un corso su Elvis Presley (Don Cheadle) e altri eccentrici docenti persi continuamente a speculare sui temi dell’esistenza con fare vanitosamente intellettualistico (la docente di chimica – Jodie Turner Smith – è di un appeal da crepacuore).

Nella prima parte viene esplorato quanto Gladney abbia il controllo razionale della situazione sia familiare – vive con la compagna Babette (Greta Gerwig, fidanzata nella realtà di Baumbach), la loro figlia e altri tre figli avuti da entrambi in precedenti matrimoni -, sia professionale – in una scena Jack entra in aula con tunica nera e occhiali scuri per integrare il corso su Elvis con un paragone pedissequo su Hitler e finisce tra gli applausi. Nella seconda parte è invece l’incedere inquietante di un’enorme nube nera nel cielo, provocata da un incidente tra un camion con materiale infiammabile e un treno con tonnellate di sostanze tossiche, a solleticare l’avvento di un’apocalisse imminente. La sicurezza razionale di Gladney svapora come neve al sole quando mentre degusta la cena in casa minimizza sul possibile caos – non accadrà nulla, qui la nube non arriverà, le autorità sanno quello che fanno, ecc…- ma all’improvviso la polizia intima di evacuare la città in tutta fretta. La fuga immediata della famigliola con figlio adolescente, che sembra più preparato del padre e di chiunque in materia di chimica e meteorologia, si incanala in uno strano tunnel notturno sinistramente distopico tra serpentoni di auto, stazioni di servizio deserte (sembra un romanzo di Houellebecq o la coda di Terminator), un campo militare modello quarantena con brande, solitari guru complottisti che improvvisano comizi o canzoncine folk anni settanta sul potere, e ancora panico improvviso con deviazione automobilistica nella foresta. La terza parte, infine, è quella che segue con uno stacco improvviso il ritorno a casa dei Gladney e dell’approfondimento da parte di Jack dell’assunzione “sperimentale” da parte di Babette di psicofarmaci per alleviare il senso della morte incombente con relativa sparatoria finale sul ciarlatano pusher di pillole, dove l’allegoria materialistica e il dimesso implicito tono comico del testo di De Lillo trovano compimento in una suora infermiera dall’accento tedesco che sbeffeggia il senso religioso del sacro come palliativo al timore dell’aldilà. Baumbach le prova tutte per ricostruire visivamente e concettualmente il postmodernismo letterario di De Lillo. Cerca di allontanarsi dai cliché di genere (il catastrofico, il fantastico, il paranoico anni settanta) ma l’approdo è spesso nel vicolo cieco dell’anonimato e dell’asettico. Tenta in ogni modo di agguantare il tono comico del romanzo tra metafiction e pastiche, ma in diversi momenti, come per la fuga tra tronchi e torrenti nella foresta o l’uccisione del pusher, gli sfugge di mano la cloche per far atterrare White Noise nell’olimpo del cinema di serie A. L’impressione, oltretutto, è anche quella del fiato corto letterario e cinematografico del racconto stesso (si veda il rassicurante consumismo da supermercato premiato perfino con il brano musicale firmato dagli LCD Soundsystem). Come dire, post Covid vagamente datato e ampiamente superato. Anche la direzione d’attori, fiore all’occhiello nella filmografia di Baumbach (Marriage story, Giovani si diventa, Frances Ha), sembra latitare quel tanto che basta per far apparire il gigionismo di Driver piuttosto pleonastico e la buona volontà della riccioluta Gerwig una specie di accademia del melodramma tardivo. Su Netflix, ma ancora senza data di uscita. Per il Leone d’Oro invece meglio ripassare un’altra volta.

P.S. Il pipistrello in sala c’era davvero e ha volato davanti al megaschermo della sala Darsena per almeno dieci minuti. Speriamo che il volatile stia bene e non sia stato abbattuto.

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