di Gianluca Pinto

Ormai sempre, e dico sempre, quando qualcuno si azzarda a parlare di modelli economici alternativi a quello attuale si trova davanti il muro delle solite farsesche frasi: “Il problema è adesso”, “Non ragioniamo sui massimi sistemi” (nella maggior parte dei casi detto con aria di sufficienza e scherno), dobbiamo ragionare sul concreto”(?), “dobbiamo essere pragmatici” oppure “io sono un pragmatico”.

Fermo restando che il “pragmatismo” come prodotto filosofico ha una sua certa nobiltà d’origine (basti pensare a C.S. Peirce) e l’uso che ne viene fatto è svilente e talvolta rasenta lo squallore, questa sciocchezza di affermare pedissequamente il primato del pragmatismo in un momento come quello che siamo vivendo è rischioso per due motivi fondamentali: perché storicamente la collettività è stata costretta a ragionare dei “massimi sistemi” quando ha realizzato di trovarsi materialmente ai “minimi termini” a causa di uno “status quo”: punto a cui siamo oggi, sia dal punto di vista ambientale che sociale.

Perché è “grazie” al pensiero pragmatico che la situazione è ridotta ai minimi termini. Il pragmatismo, nella diffusissima e triviale accezione comune, grazie a corresponsabilità della politica e del giornalismo, per sua natura non pone come parte delle variabili di un problema l’insieme delle condizioni particolari di partenza, ma le considera come assiomi: nella sua volgare accezione propagandistica si riduce al concetto che le soluzioni ai problemi si debbano trovare “dalle” e “nelle” condizioni date.

Ricorrendo a una metafora: ho una casa con più stanze e c’è un tavolo enorme nel centro della stanza più piccola. Devo mettere anche altri oggetti in quella stanza ma questo mi crea difficoltà. Il pragmatico parte dall’assioma che il tavolo è in quella stanza in quella posizione lì: quello è il suo universo di partenza; la situazione concreta data immutabile. Non contempla che proprio quella condizione sia la base del problema che deve risolvere, quindi quel tavolo, il pragmatico, non lo sposterà mai, ma cercherà tutte le soluzioni palliative e raffazzonate per sistemare gli oggetti in quella stanza assieme al tavolo in quella posizione lì. Chi ragiona sui massimi sistemi, invece, considera il tutto e, logicamente, pensa che sarebbe il caso di ricorrere ai “massimi sistemi” per spostarlo in un’altra stanza.

Questa accezione di “pragmatismo” è di fatto uno strumento al servizio dello “status quo“. È bene che chi ne fa uso ne sia consapevole. Non si possono chiedere cambiamenti radicali e al contempo dirsi pragmatici: questo è un ossimoro. Porsi il problema dei cosiddetti massimi sistemi è un atteggiamento molto più concreto e materiale del mal usato pragmatismo, che è di fatto una prigione del pensiero e dell’azione. Tutto ciò che c’è oggi – che è tale anche grazie a tutti coloro che sono sino ad ora stati pragmatici – è la causa del “dove e come siamo”, non è un contesto da preservare: viviamo in un mondo con una concentrazione della ricchezza senza precedenti (con il 90% della ricchezza nelle mani del 5% della popolazione), alla presenza di una povertà diffusissima, sull’orlo dell’estinzione di massa per danni all’ambiente e/o per una guerra che rischia sia di accendere altre micce (vedi Taiwan e Serbia) sia di portarci al conflitto nucleare.

La cosiddetta “svolta green”, per ora, ha portato solo al greenwashing (almeno in campo farmacologico per capire gli effetti paradosso si deve aspettare una sperimentazione, mentre in questo caso l’effetto paradosso è l’unico che vediamo prima ancora di iniziare la sperimentazione), proprio perché si ragiona su quello che c’è e non sui massimi sistemi. Il pragmatismo, ora, è di fatto un approccio dannoso al pensiero. Tutti dovrebbero necessariamente riflettere sui cosiddetti massimi sistemi e su quello che ciascuno può fare per cambiare il modello economico di cui siamo totalmente schiavi e prigionieri (talvolta perfino affetti da sindrome di Stoccolma).

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