Pare che il centrodestra abbia abbandonato il sogno di una ampia rivoluzione fiscale targata flat tax per tuti i contribuenti, e si sia riposizionato sulla più modesta, ma non tanto come vedremo, proposta di ampliare la flat tax degli autonomi portando la soglia del privilegio fiscale dell’Irpef al 15% dai 65.000 euro di fatturato a quella dei 100.000 euro.

Questa flat tax è l’ultima arrivata nella piccola giungla delle tasse piatte che stanno corrodendo la base imponibile dell’Irpef, ma anche la più iniqua ed ingiustificabile. Le altre due principali tasse piatte sul reddito sono quella sulle rendite finanziare che esiste già dal 2004 e quella sugli affitti, introdotta nel 2011, che coinvolge più di 2,4 milioni di contribuenti. L’effetto di una tassa piatta è semplice: poiché si esce dal perimetro dell’Irpef e delle sue aliquote anche la tassazione sarà più bassa, e anche molto più bassa, con un grande beneficio per il contribuente. Le tasse piatte, poiché creano dei regimi fiscali agevolati, devono essere adeguatamente giustificate. Qui seguo il caso della tassa piatta con aliquota del 15% sul reddito dei lavoratori autonomi a partita Iva, che è il caso che può interessare la prossima campagna elettorale.

La flat tax sul lavoro autonomo, piccoli professionisti, artigiani e commercianti, ha avuto un percorso accidentato, guidato nel corso del tempo da motivi e finalità differenti. Questo tipo di flat tax è stata introdotta da un governo di centrosinistra, ed esattamente dal governo Prodi nel 2008, sotto la supervisione del prof. Vincenzo Visco. Lo scopo fondamentale era quello di sgravare le piccole attività autonome, quelle sotto i 30.000 euro di fatturato, dai molti adempimenti amministrativi, come ad esempio la tenuta dei registri contabili. In questo quadro di semplificazione gestionale venne introdotta una tassa proporzionale sul reddito con aliquota unica al 20%. Lo schema fiscale era di natura sperimentale e alla fine del triennio i contribuenti coinvolti furono quasi 800mila, con un reddito medio annuo dichiarato di 9.670 euro (1.940 le tasse pagate), e dunque molto basso.

Aspetto molto importante, la riforma Visco non ebbe nessun impatto negativo sui conti dello Stato, cioè non ci fu una riduzione di gettito fiscale. Per contrastare poi gli effetti della crisi del 2008 il regime venne modificato nel 2012, portando l’aliquota fiscale al 5%, sempre per favorire i giovani imprenditori.

Il 2015 è un anno molto importante, ancora targato centrosinistra. La riforma stavolta ha toccato anche il modo con cui viene calcolato il reddito degli autonomi, che diventa una sorta di reddito catastale stabilito per decreto ministeriale (il sistema del reddito forfetario), con indubbio vantaggio dei contribuenti interessati. La tassa su questo reddito determinato per via amministrativa era fissata al 15% e diventava il regime normale per i lavoratori autonomi di modesto fatturato. Questi contribuenti agevolati nel 2018 sono stati 900mila, dichiarando un reddito medio di 9.231 euro e pagando (all’anno) 1.026 euro di tasse, sempre in media. Per aver un’idea, un lavoratore autonomo su quattro aderì al nuovo sistema. Anche la riforma della flat tax di Renzi conteneva delle clausole limitative per accedere a questo sistema di vantaggio contabile oltre che fiscale, che però si sono dimostrate molto fragili.

Il nuovo governo giallo-verde infatti è intervenuto nel 2019 cambiandone completamente la filosofia di fondo, come proposto dalla Lega di Matteo Salvini. La flat tax degli autonomi non era più pensata come una misura per sostenere le piccole attività economiche, ma come la strada per consentire una sostanziosa riduzione delle tasse, ma solo per i lavoratori autonomi.

Ecco allora la flat tax del primo governo Conte, che ha esteso il sistema di privilegio fiscale fino ai 65.000 euro di fatturato, eliminando tutte le condizioni limitative. Il vantaggio economico in termini di minori tasse pagate è stato enorme per questi contribuenti (fino a 500 euro al mese di risparmio fiscale), con un ammanco per le casse dello Stato stimato prudenzialmente in circa 2 miliardi di euro. Non sorprende che il numero dei contribuenti sia passato a 1,6 milioni di unità, in sostanza quasi un autonomo su tre gode di un regime agevolato in ragione del modesto fatturato.

Per avere un’idea concreta dei valori in gioco, leggendo la relazione ministeriale si ricava che il reddito medio dichiarato da questa categoria eletta di contribuenti nel 2020 (mancano ancor ai dati per il 2021) è stato di 12.961 euro, con una tassazione media annuale di 1.556 euro. Nello stesso anno un pensionato ha versato mediamente all’erario tasse per 4.566 euro, quasi il 300% in più. In base a queste statistiche fiscali potremmo dire che il 30% dei lavoratori autonomi ha un reddito appena al di sopra della soglia di povertà e si trova in una condizione di indigenza economica.

La politica ha creato un esercito di proletari della partita Iva, con tutte le conseguenze che ne derivano (richiesta di sussidi, agevolazioni, contributi e altro). Un dato che però stride con l’esperienza quotidiana. La prevista estensione poi della soglia ai 100mila euro di fatturato è stata lasciata cadere dal secondo governo Conte e ora torna in ballo. Con questa estensione il vantaggio fiscale sarebbe gigantesco per i nuovi contribuenti e farebbe impallidire la recente riduzione fiscale operata dal governo Draghi sui redditi medi. Redditi eguali, ma da fonte diversa, da lavoro autonomo o da lavoro dipendente, sarebbero trattati dal fisco in maniera del tutto differente contro ogni principio di equità e di buonsenso, violando apertamente il dettato costituzionale.

La storia della flat tax dei titolari di partita Iva cosa ci può insegnare? In definitiva, la tassa piatta è uno strumento fiscale come un altro, che può essere piegato a finalità diverse. Introdotta e poi ulteriormente sviluppata dal centrosinistra due decenni fa, la tassa piatta per i piccoli operatori economici aveva lo scopo di sostenerli nel ciclo iniziale della loro attività produttiva o professionale. E questo scopo è stato ampiamente raggiunto. Nelle mani della destra salviniana si è trasformata in qualcosa di molto diverso e rischia di diventare uno strumento clientelare per creare un paradiso fiscale riservato ad una limitata categoria di contribuenti.

La prevista estensione della soglia di reddito andrebbe ad ingrossare le file di una casta fiscale già molto influente, con una pesantissima perdita di gettito per le casse dello Stato e un danno per tutti i cittadini. Ingiustificabile economicamente, iniqua e insostenibile giuridicamente, questa proposta di aumentare i privilegi fiscali dei lavoratori autonomi dovrebbe essere bocciata anche dagli elettori del centrodestra, che non credo siano al servizio degli interessi economici di qualche casta fiscale protetta dal narcisismo politico di leader che pensano solo al loro meschino orticello elettorale e non agli interessi del nostro Paese.

Aggiornato da redazione web alle 16.55 del 17 agosto 2022

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