Dopo aver ottenuto, con una vittoria non trionfale, un numero esorbitante di seggi in virtù della legge elettorale in vigore, la leader di Fratelli d’Italia riceverà quasi certamente l’incarico ​​di Primo ministro della Repubblica italiana e il suo governo, il più di destra dalla caduta del regime fascista di Mussolini, otterrà la fiducia del Parlamento.

È difficile, nella perfetta coincidenza del centenario della Marcia su Roma, non riandare alle grevi parole pronunciate dal Duce davanti alla Camera dei Deputati nel giorno in cui fu nominato Presidente del Consiglio dei ministri: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. È passato un secolo e lo stesso Mussolini, oggi, non potrebbe essere “come Mussolini”. Giorgia Meloni entrerà a Palazzo Chigi in virtù di un voto democratico; la società si è trasformata, atomizzata, globalizzata, ed è in larga parte governata dalla digitalizzazione; media e partiti di governo sono generalmente omologati in un format atlantista attento agli interessi delle lobby economiche. Non servono il sabato fascista, il testo unico per le scuole, la “rete tentacolare di spionaggio” e la “propaganda di Stato” di cui parlava Piero Calamandrei analizzando Il fascismo come regime della menzogna.

Nella progressiva rarefazione dello spazio pubblico, i leader di partito non parlano dai balconi ma davanti alla telecamera del proprio smartphone, si fanno riprendere ad arringare un capannello che viene rilanciato e moltiplicato, quando non a suonare ai citofoni, preparare tortellini, accarezzare figli o concedere selfie a ridenti ammiratori, in un set perpetuo dove i like sono un contatore di popolarità che va nutrita con semplificazioni e slogan che sempre più inclinano alla trivialità del linguaggio e del pensiero, in una sorta di educazione sentimentale al fallimento morale. Proprio quest’ultimo è tra gli elementi che si ripresentano remoti e familiari, perturbanti come un’oscura rimozione: l’incanaglimento del pensiero, l’irrisione della cultura, lo sprezzo dei fragili, la debolezza delle istituzioni, lo svilimento della rappresentanza, l’impressione di una società arresa davanti all’addensarsi di crisi complesse alle quali vengono date risposte irrisorie.

L’irruzione del passato ha piuttosto l’evanescenza di una piccola frase musicale, che riporta all’ottobre 1922 e a quella che sembrò una scampagnata in camicia nera, mentre il Duce restava a Milano in attesa degli eventi; subito cacciata dalla mente, continua a insinuarsi, non diversamente da quella proustiana, sebbene al suo opposto, nel non aggirabile indicatore di verità che è il simbolico. La schiacciante vittoria di Isabella Rauti, figlia di Pino Rauti – aderente alla Repubblica di Salò, fondatore di Ordine Nuovo ed ex segretario del Movimento sociale italiano – consumata a Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia, su Emanuele Fiano, figlio dell’indimenticabile Nedo Fiano, deportato ad Auschwitz e irriducibile testimone dell’abiezione del nazifascismo, ne è l’esempio più dirompente, sebbene i figli e le figlie non portino le colpe e nemmeno i meriti dei padri.

Con ogni probabilità, in quanto membro più anziano, sarà la senatrice Liliana Segre, tra le più alte testimoni della Shoah, vittima di quello che spesso ha chiamato “il filo nero della vergogna che dalle leggi razziali condusse alla Shoah”, a presiedere, il prossimo 13 ottobre, la prima seduta del Senato a camere riunite a maggioranza di destra; proprio lei che, in un ottobre di due anni fa, si dichiarò “amareggiata e sorpresa” per l’astensione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sul voto al Senato che istituiva la tanto voluta Commissione parlamentare contro l’odio, convinta che “una commissione contro l’odio come principio non potesse che essere accettata da tutti”. Proprio lei che, questo agosto, in risposta a un videomessaggio in tre lingue indirizzato alla stampa internazionale in cui Giorgia Meloni dichiarava che la destra italiana “ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche”, aveva chiesto alla leader di Fratelli d’Italia di prendere distanza dalle origini fasciste espungendo la fiamma tricolore dal logo del partito: la stessa fiamma che campeggiava nel simbolo del Msi e che arde sulla tomba di Benito Mussolini.

Il simbolo è stato orgogliosamente difeso. Le origini erano già state rivendicate senza ambiguità nel libro autobiografico intitolato Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, in cui la futura premier descrive l’emozione provata nell’assumere la “responsabilità di una storia lunga settant’anni” e del batticuore nel sedere nell’ufficio che era stato “di Gianfranco Fini, e prima di lui di Pino Rauti e Giorgio Almirante”. È in questo senso che, presumibilmente, vanno lette le parole della dedica della vittoria elettorale pronunciate sul finire dello spoglio che la dava vincente: “È una notte di orgoglio, di riscatto, lacrime, abbracci, sogni e ricordi. È una vittoria che dedico alle persone che non ci sono più e che meritavano di vivere questa nottata”.

Molti si affannano, oggi, a parlare di normalizzazione della destra neofascista italiana, chiamandola postfascista; altri, a sinistra, ritengono controproducente stigmatizzare singoli esponenti “per il fatto che usano parole d’ordine fasciste”: quasi che l’antifascismo fosse una vecchia e impresentabile minestra, un borbottio sclerotico di persone fuori dal tempo, anziché uno dei fondamenti della Costituzione Italiana.

È difficile però ignorare il generale sconcerto che in Europa e nel mondo ha accompagnato l’esito del voto italiano; per quanto si possa pensare che la crisi energetica e del debito – nel mezzo di una guerra in cui la minaccia atomica è diventata quotidiana – costituiscano una cintura di forza capace di tenere qualsiasi governo nella morsa della “ragione” atlantista, i passi imposti da una lunga tradizione si ostinano a permanere intatti nel linguaggio e nei contenuti.

Un esempio ricco di stratificazioni è lo slogan risuonato per tutta la campagna elettorale, “Dio, patria e famiglia”: esattamente lo stesso coniato nel 1931 da Giovanni Giurati per il Partito Nazionale Fascista, benché si tenti di attutirne i rimandi con l’inesatta e fuorviante attribuzione a Mazzini. Lo stesso slogan con il quale la dittatura militare argentina, autodefinitasi “processo di riorganizzazione nazionale”, assunse il potere nel 1976, estendendo la categoria di nemico a qualsiasi persona fosse invisa al regime, e sappiamo com’è finita: con trentamila persone fatte scomparire e mai più riapparse, diventate desaparecidos.

Nel primo discorso pubblico dopo la vittoria elettorale, Giorgia Meloni non ha parlato di Italia o di Stato, ma di “nazione”, un’idea in sé nobile e feconda, se invita all’unità e alla coesione, ma che speriamo sia utilizzata con la consapevolezza di quali disastri hanno portato in Europa e nel mondo i nazionalismi del “secolo dei campi”, segnato da due guerre mondiali e dalla Shoah. Un passato che non passa, una Storia che non si dimentica di noi, la cui ombra sembra oggi estendersi più fitta sull’Italia e sul sogno dell’Unione europea.

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