Hegel lo chiamava “il porticato tra lo Stato e la società civile”. Ancora non è “il Palazzo“, il luogo chiuso del potere politico, ma non è neanche più la piazza, il luogo del mercato, del più confuso e rissoso vociare. Viene in mente il porticato di Palazzo della Ragione, a Padova, su Piazza delle Erbe, ma in Italia gli esempi sarebbero tanti.

Il porticato – il Parlamento – dove si compie il grande miracolo della rappresentanza: si entra perché si è eletti in un partito tra gli altri e da un gruppo di elettori tra gli altri, ma si lascia tutto fuori, e ci si trasforma in rappresentanti di tutti. Rappresentanti della Nazione, dice con tono solenne la Costituzione. Non più mandatari di una specifica fazione, non più rappresentanti di categoria, ma vincolati soltanto a quanto in coscienza si riterrà il bene dell’intera Nazione. “Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, articolo 67.

E così, in quello spazio che porta la piazza dentro il palazzo del potere, si rappresenta – si ripresenta – la composizione di interessi che anima la società civile. Per questo nasce il Parlamento, in una società sempre più complessa e sempre più plurale: per proiettare, quasi per ipostatizzare, il conflitto nel palazzo, e portarlo così ad una mediazione. Il valore del parlamentarismo è anzitutto un metodo: quello di far incontrare e scontrare, in uno spazio governato da regole procedurali, posizioni e interessi, perché più questi si scontrano, più gli angoli si smussano, le asperità si risolvono, in un graduale disinnesco del conflitto.

Serve grande fiducia in questa capacità maieutica del dibattito parlamentare, altrimenti la democrazia si snerva. “Si dice che la parola ‘parlamento’ si trovi, per la prima volta, nella Chanson de Roland. Ed è una bella maniera di entrare in scena: tra il lampo dei manipoli e l’onda dei cavalli, storie complicate d’amore, il mondo arabo, come sempre sullo sfondo”. Così un Maestro, Andrea Manzella, nell’incipit di un volume, Il Parlamento, che ormai è anch’esso epica. Tutt’altro tono rispetto alle cinquanta sfumature di “scatoletta di tonno” che siamo stati costretti a sentire anche di recente.

C’è bisogno invece di tornare ad ascoltare più spesso grida come quelle del socialista Giuseppe Emanuele Modigliani, che a Montecitorio, cento anni fa, si mise ad urlare “viva il Parlamento” mentre il capo di quell’associazione a delinquere che è stata il fascismo (la definizione se la diede lui stesso, dopo il delitto Matteotti) insultava: “Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.

Quelle urla furono soffocate, per ordine dell’allora Presidente della Camera dei Deputati, Enrico de Nicola, che poi sarà Capo provvisorio della Repubblica italiana, e al Parlamento non andò bene. Le elezioni del 1924 – con una legge elettorale che gridava vendetta al cospetto di Dio e in un clima di intimidazioni senza precedenti – furono le ultime. Poi si votò con il plebiscito: “sì” o “no” ad una lista di deputati dell’unico partito, il Partito Nazionale Fascista, con il dettaglio che, alla faccia della segretezza del voto la scheda per il “no” era bianca, quella per il “sì” era tricolore – una scheda patriota. Poi vabbè, alla fine il Parlamento lo sciolsero proprio nel 1939, perché ci vuole coerenza.

Le prime elezioni per le Camere dopo il fascismo, il 18 aprile 1948, e la prima seduta del nuovo Parlamento, l’8 maggio, nel centenario dell’apertura del primo Parlamento subalpino, significarono riprendere il fiato dopo un’apnea troppo lunga. Ma a respirare, si sa, ci si abitua, e allora finisce che il primo giorno del nuovo Parlamento è un giorno come gli altri, mentre dovrebbe essere un giorno di festa, uno di quelli in cui farsi gli auguri, perché la democrazia funziona.

Nel Regno Unito, dove il parlamentarismo è nato e anche le sue forme son prese sul serio, ogni giornata parlamentare si apre con la recita di una preghiera. Loro lo fanno (almeno) dal 1567; noi abbiamo così poca maturità quanto a laicità dello Stato che la cosa sarebbe drammaticamente divisiva, quindi per carità, lasciamo stare. Ma forse, a cento anni da quella voce messa a tacere in un’aula che sorda e grigia stava per diventare davvero, sarebbe bello se i nuovi deputati e senatori, il primo giorno, si ricordassero di Modigliani, e di quel “viva il Parlamento” pagato a caro prezzo.

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