Nei primi anni 60 del secolo scorso, mio padre fece costruire un villino in Alto Monferrato. Allora, le famiglie piccolo-borghesi transumavano dalla città in campagna alla fine delle scuole. Chi lavorava si adattava al pendolarismo settimanale, mentre il resto della famiglia poteva godersi una lunga, fresca villeggiatura estiva. Vivevamo Les Trente Glorieuses, come Jean Fourastié battezzò il felice periodo tra il 1945 e il 1975, ispirandosi ai tre giorni gloriosi della rivoluzione francese del 1830, Les Trois Glorieuses. L’Europa viveva davvero un’epoca straordinaria, in cui crescita economica, welfare e ottimismo si erano combinati secondo un’alchimia mai più replicata. E, forse, non replicabile.

Nel seminterrato della casa era stato ricavato un ampio garage che poteva ospitare ben due auto. Di norma, la nostra Seicento Fiat di famiglia; in seguito, anche la mia Bianchina parecchio usata, il regalo per la patente, i diciott’anni, la maturità. Il motore della Bianchina presto si fuse e su sostituita dalla gloriosa Dyane 4 rossa con cui, in seguito, feci più di 200mila chilometri. Ma il garage poteva contenere anche auto più importanti, come l’Alfa Romeo 2600 degli amici facoltosi che ospitavamo a inizio e fine stagione.

Durante l’estate del 1965, assai prima che la Bianchina irrompesse nella mia vita, arrivò una coppia di amici francesi della Linguadoca. La famigliola viaggiava su una limousine Citroën Traction Avant. Una leggendaria berlina da cinque metri con un passo smisurato, quasi 330 cm, che scese dolcemente lo scivolo del garage per affiancarsi alla nostra Seicento. Con lei erano apparse le due figlie, entrambe più grandi di me, sedute dietro, i lunghi capelli biondi mossi dal vento. Le trovavo bellissime; ma, digiune d’inglese, per tacere dell’italiano, si dimostrarono parecchio sorde al mio francese imbarazzante.

Risalire non fu altrettanto facile. Dopo numerosi tentativi, solo con l’aiuto di un trattore, manovrato con maestria da un contadino del vicinato chiamato da mio padre, i nostri riuscirono a esumare la berlina con cui rientrare in Francia. Avevo sperato invano che quel catafalco non ce la facesse, prolungando così la permanenza delle giovani ospiti.

Perché racconto un episodio così insignificante, affatto personale quanto irrilevante?

La tragicommedia della maestosa Traction Avant è un archetipo delle peripezie che gli attuali, mastodontici, Suv a trazione elettrica devono affrontare quando escono di casa. In una cittadina di diecimila abitanti con una sedicente vocazione turistica come Albisola, in Liguria, c’è una sola colonna pubblica di ricarica. Pur sfruttandola a pieno ritmo nelle 24 ore, può servire forse una ventina di veicoli al giorno. Se Albisola riflette la media nazionale, la ridente località balneare ospita almeno seimila vetture residenti, senza contare quelle di foresti, villeggianti, bagnanti, vucumprà.

In un quartiere popoloso come Città Studi a Milano – dove vivono 140mila abitanti e, per vocazione, c’è un elevato pendolarismo giornaliero e settimanale – le colonnine sono pochissime. Spesso, gli stalli vengono occupati da auto in flagranza di posteggio. Della rivoluzione elettrica proclamata nelle aule universitarie, non si trova traccia affacciandosi dalle finestre di quelle stesse aule.

Tra le grandi città, Milano è la più elettrica d’Italia, grazie anche ai generosissimi incentivi pubblici all’acquisto, locali e nazionali. Il numero delle stazioni di ricarica, spartite dalla moltitudine dei gestori, non è noto con precisione. A fine 2021, tutte le diverse fonti stimavano meno di 200 stazioni di ricarica, ognuna delle quali contava da una a tre colonnine. Le ultime stime del parco automobilistico cittadino, vecchie di cinque anni, conteggiano circa 700mila auto private residenti. Affido al lettore l’arduo compito di calcolare il numero delle stazioni necessarie a garantire ragionevoli tempi d’attesa nello scenario in cui tutte le vetture di milanesi e visitatori fossero elettriche plug-in.

Senza una diffusione capillare della ricarica privata, la rivoluzione elettrica è impensabile. Perché si realizzi, devono moltiplicarsi i luoghi adatti a ospitarla, box e posti auto. Anche qui, ci soccorre l’epica della Traction Avant: la rampa del nostro garage era troppo ripida perché la spilungona francese riuscisse a scalarla. Il veicolo, affascinante ma un po’ vetusto, non rispettava la dimensione edilizia dominante, perfetta per Seicento e Bianchina, Dyane e Giulia.

Gli spazi delle nostre città, paesi, villaggi – perfino campagne se arrampicate sui colli o sui monti – non sono compatibili con dimensioni e pesi delle auto che l’industria oggi propone in Europa, inseguendo gli Stati Uniti sulla via della reincarnazione dell’auto in autotreno. Box e posti auto, quando (di rado) disponibili, riflettono in gran parte modelli edilizi vecchi di 50 anni, quando fu prodotta la mia indimenticabile Dyane rossa: lunga 387 centimetri e larga 150, pesava 600 chilogrammi. Consumava 5 litri ogni 100 chilometri e, a tutto gas, arrivava ai cento all’ora.

Per contro, una pubblicità ossessiva ci seduce con mastodonti giocoforza energivori, ispirati ai robottoni giapponesi di Go Nagai. Mostri che percorrono paesaggi fantasy; a tutta velocità planano sulle chiare, fresche e dolci acque alluvionali; animano scenografie urbane fortemente distopiche. Questo scenario, frutto di scelte industriali poco comprensibili, risponde a un paradigma di progresso del tutto indifferente nei confronti della crisi climatica, energetica e geografica del XXI secolo. Come si può stivare Big Jim nella casetta dei sette nani?

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