Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“A scuola ho avuto un paio di professori che mi hanno stimolato a studiare filosofia, a capire il mondo provando eventualmente a risolverne i problemi. Ma agli occhi di uno studente rimanevano comunque dei professori. Il mio grande maestro di vita è stato invece il primo allenatore di pallavolo che ho avuto. Jorge Taboada aveva 25 anni, dieci più di me, e come lavoro faceva il giornalista sportivo. Oggi è il mio migliore amico. Era il coach del Club Universitario La Plata, una polisportiva in cui si praticavano tutti gli sport fuorché il calcio. Un giorno d’estate chiese a me e ai miei amici se avessimo avuto voglia di provare con il volley. Dicemmo di sì, ci piacque così tanto che continuammo a giocare anche d’inverno. Il club aveva anche la squadra femminile, fu bello passare tutta l’adolescenza insieme. Un gruppo che ancora oggi ha voglia di incontrarsi, quando capita”.

Julio Velasco, argentino di La Plata con passaporto italiano, è stato il commissario tecnico della Nazionale azzurra di pallavolo maschile. Dal 1989 al 1996 ha allenato la cosiddetta generazione di fenomeni. E un fenomeno lo è pure lui. Anche oggi che, smessi i panni del coach, è direttore tecnico in Federazione per il settore giovanile maschile.
“In due stagioni vincemmo tutto a livello Juniores e in quattro, ormai avevo 18 anni, finimmo in A1. Poi io mi iscrissi all’università, impegnandomi soprattutto nel movimento studentesco e Jorge andò a Rosario a fare una rivista: si sfaldò tutto. Con Jorge ci siamo persi di vista per tre anni circa, intorno al 1973 ci ritrovammo e diventammo amici alla pari, non c’era più il rapporto allenatore-atleta. Nelle cose di tutti i giorni è stato per me una guida, un confidente che cercavo quando avevo problemi, fossero guai d’amore o tragedie personali. Praticamente non ho conosciuto mio padre, separato presto da mia madre, è poi morto giovane. Mamma era un’insegnante e si è fatta in quattro per noi fratelli, ma siamo cresciuti senza una figura maschile in casa. Anche Jorge è rimasto orfano presto. Ci ha unito pure questo”.

Che giovane uomo è stato il suo maestro?
“È venuto anche a lavorare per un periodo in Italia, poi è tornato in Argentina. Lui è il tipico porteño, un bohemio con cui ho scoperto la notte. Affascinante anche sotto questo punto di vista. Da ragazzo avevo sempre pochi soldi in tasca, i primi ristoranti li ho conosciuti grazie a lui. Quando più tardi ho potuto permettermeli, ho saputo ricambiare i favori”.

Cosa le ha insegnato in palestra Taboada?
“Mi ha dato l’impostazione su come vedere la pallavolo. A quei tempi esisteva solo una visione tecnica del volley, lui mi ha regalato una visione più completa del gioco. Tuttora il volley è visto troppo spesso come uno sport a tecnica chiusa come possono essere i 100 metri nell’atletica leggera, eppure come il calcio cambia in continuazione. Calcio e pallavolo sono sport in cui ci sono tante tecniche, ecco perché è fuorviante parlare di fondamentali. Faccio un esempio calcistico: all’interno di una partita ci sono tante situazioni diverse nelle quali si stoppa il pallone, non una sola. L’allenatore deve quindi insegnare tutti i modi per poter risolvere il gioco”.

Come è giunto Taboada a questi risultati tanto innovativi?
“Come tutti i rivoluzionari non si sa da dove gli siano arrivate le idee. Infatti in Argentina lo chiamavano Il Mago…”

Arrivato in Italia nel 1983 per allenare il Latte Tre Valli Jesi in serie A2, ha trovato da noi altri maestri?
“Non di questo tipo, nessuno è stato così determinante per la mia carriera. Però io continuo a imparare ogni giorno, leggendo libri, guardando un film o ascoltando le parole di qualcuno. Ce l’ho come meccanismo automatico. Imparo anche dal bidello che apre la palestra ai ragazzi”.

Lei si sente un maestro?
“Un allenatore lo deve essere, una guida soprattutto quando deve allenare i giovani. Quelli più bravi sono quelli che lasciano le cose implicite, non quelli che dicono: bisogna fare così. Gli allenatori che un tempo sono stati miei giocatori pubblicamente non parlano molto di me. A me piace che parecchi dei miei siano diventati oggi bravi coach e faccio il tifo per loro. Per me è un vanto. Lo stesso quando diventa allenatore uno che ha fatto parte del mio staff, il merito è soprattutto del tecnico perché significa che è bravo di suo, ma c’è da dire che io ho sempre delegato molto, lasciando autonomia ai miei collaboratori”.

Tra i tanti successi, con la Nazionale ha vinto tre europei, due mondiali, cinque World League e con i club quattro campionati italiani, tre coppe Italia, una supercoppa italiana e una coppa delle coppe. Le manca non aver conquistato un’Olimpiade o una Coppa dei Campioni?
“Non mi manca per niente! Esistono persone che guardano a quello che gli manca: gente destinata ad essere povera per sempre. È una cosa da pazzi pretendere di vincere sempre. Vincere tutto, tutto, tutto? Nessuno ci riesce. La vita non è una scala a chi arriva più in alto”.

Cosa le piace dell’attuale esperienza in Federazione?
“Far crescere i ragazzi mi dà soddisfazione. È una fortuna enorme farlo a 70 anni: stare con i giovani mantiene giovani. A loro dico sempre che il privilegio vero è fare quello che più ci piace, se poi si raggiungono grandi traguardi ancora meglio. E che è importante fare le cose bene, sia se lavori nel mondo dello sport sia se fai, che so, il falegname, l’unica differenza è che non esiste il campionato del mondo dei falegnami e che quindi si ha un riscontro diverso”.

Se si guarda indietro cosa pensa della sua carriera?
“Non avrei mai pensato di riuscire a fare quello che ho fatto”.

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