Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Il primo incontro di pugilato fu per strada. Era uno di quei match abusivi che si facevano a Lubumbashi, ex Congo belga. Al mio angolo non c’era nessuno, però sentivo le voci di mio fratello e di altri amici che mi urlavano di menare l’avversario. Feci tre round e vinsi. Poco dopo entrai in palestra dove trovai un vero maestro: mi insegnò la guardia, come si tira e tutte le basi della boxe. Tu hai già fatto pugilato, mi disse. Ma era la prima volta che mettevo piede in palestra. Iniziai a studiare gli altri che boxavano là, poi andavo al palazzetto della città a vedere gli incontri che organizzavano. Ho imparato molto anche così”. Patrizio Sumbu Kalambay, nato in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo, è stato naturalizzato italiano nel 1984 a 28 anni. Da quel momento è stato campione italiano, europeo e mondiale dei pesi medi. Il pugilato l’ha imparato in Africa.

C’erano buoni maestri là?
“Se un pugile veniva da Lubumbashi solitamente era uno forte. Tanti, anche della generazione prima della mia, se ne sono andati a combattere in Europa. Pure nella capitale Kinshasa c’erano buoni pugili, così come lo erano quelli provenienti dal Sud Africa e dallo Zambia”.

Come mai la sua era una città di pugilato?
“Il merito è soprattutto di Robert Cohen, un francese di origine algerina campione del mondo dei pesi gallo negli anni 50. Si trasferì da noi, una volta conclusa la carriera. Lo fece per motivi di lavoro e a Lubumbashi aprì una palestra, rivoluzionando così con la sua esperienza la boxe del mio Paese: portò materiali nuovi e cambiò l’atteggiamento. Si passò da una fase amatoriale ad una più professionale. Tutti volevano andare da lui. Costruiva pugili che poi quando smettevano diventavano a loro volte allenatori. No, non è stato il mio maestro, perché allora io ero troppo piccolo”.

Il suo come si chiamava?
“Sebastian, con cui ogni tanto mi scrivo ancora. Sono 24 anni che non ritorno in Congo, l’anno prossimo vorrei farlo e passare a trovarlo. Vive sempre nella zona dove sono nato. In Africa c’erano buoni maestri sennò in Europa, dove allora emigravamo in tanti per boxare (anche in Italia), non ci avrebbero preso”.

Andò a Kinshasa a seguire nel 1974 Rumble in the Jungle, uno dei match più famosi della storia della boxe?
“Mi sarebbe piaciuto andare a Kinshasa a vedere Ali contro Foreman, ma le due città sono distanti più di duemila chilometri. Lo ascoltai per radio e lo vidi in differita in tv il giorno successivo. Grazie a quell’incontro Mobutu fece conoscere il Paese e il nome nuovo Zaire in tutto il mondo. Quel mitico ring esiste ancora ed è pure ben conservato. Ci ho combattuto anch’io con la Nazionale anni più tardi e dopo aver vinto il Mondiale sono andato là a fare un match di esibizione con Mwehu Beya, nato anche lui in Congo e in quel momento campione italiano dei supermedi”.

Arrivato in Italia chi fu il suo allenatore?
“Non avevo un vero maestro, ma un manager. In palestra eseguivo il mio programma quotidiano da solo, più tardi avrei avuto anche un preparatore atletico. Imparavo molto guardando gli incontri che trasmetteva Rino Tommasi nel programma La Grande Boxe”.

Oggi collabora con la Federazione, lavorando con gli Elite, Under e Youth. Che metodo utilizza con loro, lei che da pugile nelle conferenze stampa quasi non parlava?
“Cerco di trasmettere quello che facevo un tempo sul ring, mostrando la tecnica e spiegando la tattica. Dico sempre di non avere fretta e di combattere con intelligenza, cercando di leggere bene l’incontro e capendo in anticipo come si muove l’avversario. Una volta parlavo pochissimo, perché pensavo che dovesse parlare il ring. Anche oggi cerco di dire soltanto le cose essenziali, ma sicuramente sono più loquace. Rimango però una persona molto tranquilla e calma”.

Piccirillo, Cantatore, Perugino, Vidoz. Lei in passato ha allenato anche i professionisti.
“Alla vecchia maniera: footing alla mattina, pomeriggio in palestra a fare figure, ripetute e sacco. Fino a qualche anno fa si faceva così e non era difficile imporre la corsa agli allievi, si svegliavano e andavano. Oggi la corsa la lasciamo ai maratoneti e si fa più palestra. Ho allenato anche mio nipote Carel Sandon, che era molto bravo, senza essere riuscito ad arrivare al mio livello. Nessuna paura, ma l’ansia e l’emozione di stare all’angolo di un parente non è una cosa da poco”.

Suo figlio Patrick invece ha preferito dedicarsi ad altro?
“Veniva sempre in palestra con me, ma si portava appresso sempre un pallone e così alla fine ha scelto di fare calcio. Meglio così, da bimbo aveva un faccino troppo bello per essere preso a cazzotti. È arrivato fino alla Serie B. Mio fratello più piccolo Vincent Ngeleka, che vive ancora in Italia, ha disputato un paio di incontri da professionista, ma poi ha smesso per problemi di fisici”.

La sua è una famiglia di sportivi?
“Sì, mia sorella giocava a pallacanestro e i miei fratelli a calcio. Anche papà fu un calciatore, in Congo giocava da libero. Oltre a Rumble in the jungle, il mio Paese fu molto coinvolto emotivamente nello sport nel 1974. Quell’anno la Nazionale di calcio vinse la Coppa d’Africa e si qualificò al Mondiale di Germania. In quella formazione giocavano molti calciatori del Mazembe, la squadra della mia città. Conoscevo personalmente molti di quei ragazzi perché erano amici di mio fratello più grande”.

Durante la partita con il Brasile Joseph Mwepu Ilunga mentre era in barriera, in attesa del calcio di punizione di Rivelino, al fischio dell’arbitro anticipò il campione brasiliano calciando nella direzione opposta. L’ha conosciuto?
“Sì, era una brava persona. Anni fa gli ho fatto rivedere quel video e ci siamo messi a ridere. L’arbitro ha fischiato, il brasiliano non si decideva a calciare e l’ho fatto io, mi disse col sorriso sulle labbra. La sua fu una azione assolutamente istintiva”.

Quando ottenne il passaporto italiano affiancò al nome di battesimo quello di Patrizio. In onore del collega campione olimpico e mondiale Oliva?
“Lo scelse per me Mario Mattioli, il giornalista”.

Nella sua epoca la categoria dei pesi medi era formata da campionissimi. Perché non riuscì ad affrontarli?
“Quando io diventai campione del mondo, Hagler smise e Leonard dopo la vittoria lasciò il titolo vacante. Hagler era fenomenale, forte con entrambe le mani. Con Leonard avrei potuto farcela, avevamo lo stesso stile. Con Duran dovevo combattere ma poi saltò il match. Il suo destro era un mattone. Picchiava duro. Con Hearns, altro grande pugile, ha combattuto anche l’italiano Minchillo. Avrei potuto incontrarlo pure io. Anche con Mike McCallum sarei dovuto andare giù dopo tre round, eppure per dodici non mi ha visto. Io sono contento di quello che ho fatto in carriera”.

Segue il pugilato odierno?
“Ho perso un po’ di interesse, in tv fanno i match a tarda ora e non voglio svegliarmi per vederli. Il pugilato mi piace ancora, mi ha dato tanto, ma ci sono altre cose nella vita”.

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