di Roberta Ravello

La Corte costituzionale il 27 aprile 2022 ha stabilito che ai bambini dovrà essere dato il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine deciso dagli stessi, a meno che i genitori non decidano di attribuirne solo uno e quello che ritengono più opportuno.

Lo stop all’automatismo del cognome paterno ai figli è una battaglia storica femminista che perdura da decenni.

Il via libera arrivato dalla Corte costituzionale sancisce l’illegittimità dell’automatismo del cognome paterno, una regola obsoleta e discriminatoria per le madri, in contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti della persona. Secondo la Corte, nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse della prole, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul cognome con riferimento ai figli nati nel matrimonio come fuori dal matrimonio e anche ai figli adottivi. Sarà compito del legislatore, però, regolare tutti gli aspetti connessi a questa sentenza.

Peccato che tale innovazione sia venuta dalla Corte e non dal Parlamento, dove al Senato pendono ben 6 disegni di legge al riguardo (dl 170, 286, 1025, 2102, 2276, 2293). Il tema della attribuzione del cognome ai figli in Parlamento era già presente nella legislatura precedente ma, dopo essere stato licenziato dalla camera, si era arenato al Senato. In questa legislatura era cominciato il 15 febbraio l’esame di legge in Commissione Giustizia del Senato dei vari dl dedicati, per arrivare al testo unico da discutere in assemblea. Ora, la sentenza della Corte costituzionale dovrebbe creare un volano per velocizzare i tempi.

Non è però la prima sentenza della Corte costituzionale che obbligava il parlamento a rivedere le norme. La riforma degli articoli del Codice civile si era già resa necessaria per adeguarsi a una sentenza del 2016 della Consulta: “obbligare i genitori a dare ai figli il solo cognome del padre, e vietare invece quello della madre, è incostituzionale perché viola l’uguaglianza tra uomo e donna”. Lo aveva deciso l’8 novembre 2016 la Corte costituzionale, interpellata da una coppia di Genova alla quale l’anagrafe aveva negato la possibilità di chiamare il proprio figlio con il cognome di entrambi. Questa seconda sentenza della Corte sullo stesso solco rafforza la necessità della modifica legislativa, che ci uniformerebbe a quello che avviene già in altri Paesi europei, come Francia, Spagna e Germania, e che è sollecitato da diverse Convenzioni internazionali e dal Consiglio d’Europa per garantire la parità di genere anche dal punto di vista dell’apposizione del cognome alla propria discendenza.

Il tema, impegno trasversale per molte senatrici, dovrebbe diventare di rilevanza nazionale perché si velocizzi l’iter parlamentare e si arrivi al risultato in questa legislatura. Ma c’è speranza, quando tutti gli appuntamenti contro le discriminazioni vengono posticipati o affossati dall’attuale Parlamento?

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