Su il costo del lavoro, giù i contratti ultra precari. Lo ha fatto la Spagna aggiungendo un nuovo tassello alla recente riforma del Lavoro, che tra gli obiettivi principali si è data quello di combattere il precariato. In particolare, si concretizza l’aumento contributivo giornaliero per tutti contratti a termine più brevi di trenta giorni, con un adeguamento che, come il resto delle basi contributive minime, è stato del 3,6% per l’anno in corso, per adeguarlo all’aumento del salario minimo interprofessionale (Smi) inserito nella riforma del governo socialista di Pedro Sánchez. La nuova addizionale, già annunciata e con effetto retroattivo al primo gennaio, sembra mostrare i primi effetti contro la stagionalità e la rotazione del lavoro e, secondo il ministro dell’inclusione, della sicurezza sociale e delle migrazioni, José Luis Escrivá, ha già ridotto il volume dei contratti molto brevi.

La Gazzetta Ufficiale dello Stato spagnolo ha pubblicato due gironi fa l’ordinanza ministeriale che fissa tutte le basi, le aliquote e le regole per i contributi previdenziali delle imprese e dei lavoratori. Il regolamento include l’aggiornamento delle basi contributive minime all’aumento del salario minimo interprofessionale, portato a 1.000 euro per 14 mensilità e approvato il 22 febbraio scorso, così da adeguare ogni importo riferito al nuovo minimo salariale. In particolare, il governo spagnolo ha aumentato da 26,57 a 27,53 euro il contributo addizionale che i datori di lavoro devono pagare alla fine dei contratti temporanei sotto i 30 giorni. L’adeguamento e il pagamento di queste basi avrà effetto retroattivo dal 1 gennaio 2022, il che significa che le aziende dovranno rimborsare alla previdenza sociale la differenza per ciò che non è stato pagato dall’inizio dell’anno. Quanto alle eccezioni, il supplemento aziendale per i contratti a brevissimo termine non si applica ai contratti con lavoratori inclusi nel Sistema Speciale per i Lavoratori Agricoli, nel Sistema Speciale per i Lavoratori Domestici o nel Regime Speciale per le Miniere di Carbone, né ai contratti di sostituzione.

Insomma, la Spagna ha aumentato il costo del lavoro. E in particolare per il lavoro ultra precario, quello fatto di contratti brevi e brevissimi. Una sfida per un paese dove la quota dei contratti a termine arrivava al 22,3% prima della pandemia, contro una media Ue del 12,8% e italiana del 13,4% (dati Commissione europea 2020). Le novità affiancano il nuovo paradigma della riforma del Lavoro dell’esecutivo di Sánchez, che ha operato una stretta generale sui rapporti di lavoro temporanei. Con il contratto che d’ora in poi si presume a tempo indeterminato e al quale potrà essere posto un termine solo per oggettive esigenze produttive o per la sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Termine che comunque non potrà durare più di sei mesi o al massimo un anno se previsto dal contratto collettivo. Oltre i 18 mesi di lavoro su 24 totali, anche con contratti diversi tra loro, il lavoratore diventa automaticamente assunto a tempo indeterminato. Un bel cambiamento se si pensa che in Italia l’obbligo di dover giustificare i rapporti a termine è stato prima eliminato dal primo contratto sottoscritto (riforma Fornero del 2012) e poi cancellato del tutto dalle novità introdotte dal governo Renzi nel 2015. Infine reintrodotto timidamente, e solo parzialmente, dal decreto dignità del primo governo Conte, e solo per contratti e rinnovi che superino i 12 mesi.

Più coraggiosa la svolta spagnola, dove la nuova addizionale, concepita come un modo per dissuadere le imprese dal fare contratti molto brevi, è già un vanto del governo. Secondo quanto divulgato dal ministro di Escrivá, mentre tra il 2017 e il 2020 il 30% dei contratti erano di brevissima durata, i dati di metà marzo di quest’anno mostrano che i contratti di un giorno hanno ridotto il loro peso sul totale dei contratti di 18 punti, all’11,5%, mentre i contratti da due a sette giorni rappresentano il 16%, undici punti in meno. Sempre secondo i dati del ministero, quasi la metà dei contratti firmati a gennaio e febbraio erano ancora in vigore a metà marzo (48%), mentre prima della riforma del lavoro questa cifra era solo del 10%.

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