Nuova impennata di contagi nel complesso penitenziario romano di Rebibbia. Hanno tardato a fare tamponi nelle settimane passate e dai pochi casi sporadici si sono creati dei focolai. Si spera, come d’altronde facciamo noi tutti più in generale, che si tratti della coda dell’emergenza sanitaria, che pare debba passare per la tanto decantata e talvolta dileggiata immunità di gregge. Nel frattempo, tornano ulteriori restrizioni e chiusure in un mondo, quello carcerario, che già di per sé, per sua intrinseca natura, vive di privazione delle libertà.

Sono sospese, per quanto ci riguarda direttamente come scuola, tutte le attività didattiche in presenza in gran parte dei settori: Casa di reclusione, femminile e Terza Casa circondariale. Va da sé che restino in attesa anche le varie iniziative che andrebbero ad “arricchire l’offerta formativa”, con cui le diverse realtà scolastiche vanno a interagire con le Aree educative nella loro fondamentale funzione di “trattamento intramurario”. Si temono ripercussioni nei colloqui, momento di cruciale importanza nella vita dei detenuti che cercano di mantenere rapporti con i propri familiari. E un rallentamento, se non un vero e proprio blocco da parte della Magistratura di Sorveglianza, nella concessione di benefici di legge e misure alternative alla detenzione, che avviano al graduale reinserimento sociale del condannato.

In tempi di pandemia, come si era già visto fin dall’inizio, si crea un distacco ancora più netto con il mondo esterno, il che rende più dura del solito la vita in carcere. Tutti noi abbiamo vissuto, soprattutto in certe fasi particolarmente difficili, in condizioni talmente critiche da mettere a repentaglio la nostra tenuta psicofisica. Basta un minimo di sensibilità per immaginare come quelle sensazioni possano rimbalzare all’interno delle celle di detenzione, dove anche in condizioni ordinarie tutti i problemi vengono amplificati, alterati e accentuati da forme di comunicazione del tutto peculiari.

Non dev’essere un caso se si assiste, in questi primi mesi dell’anno, a un preoccupante aumento di episodi di autolesionismo e, in casi estremi, di suicidio. Sono già 14 da inizio anno, decisamente troppi.

Sono facilmente reperibili in rete le rilevazioni e elaborazioni fornite dalle due organizzazioni più attive nel mondo carcerario: l’associazione Antigone e Ristretti Orizzonti, gruppo di cultura e informazione della Casa di Reclusione di Padova. I dati ufficiali vengono dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria): secondo la stima più recente i detenuti nei 189 istituti di pena italiani sono oltre 54mila, su una capienza regolamentare di circa 50mila. Vuol dire che sono in troppi nella stessa cella, ove più ove meno, nella gran maggioranza dei casi.

Ogni anno sono circa sessanta coloro che si tolgono la vita all’interno delle prigioni; 36-40 anni è la classe d’età più colpita. Mettendo in relazione i valori in termini assoluti e il numero di detenuti mediamente presenti si calcola il tasso di suicidi, che mostra una crescita sempre più marcata a partire dal 2017. Al di là dei casi personali, è innegabile che si tratti di uno dei principali indicatori di malessere del sistema penitenziario. È vero che c’era stato un certo calo negli anni successivi al 2013, probabilmente da ricondurre alla sentenza Torreggiani e alla conseguente riduzione del tasso di sovraffollamento, che ha garantito più dignitose condizioni di detenzione.

Si parla dei detenuti, ovviamente colpiti in primis, ma non vanno dimenticate le condizioni di chi opera all’interno delle carceri, dalla polizia penitenziaria agli educatori, al personale socio-sanitario, gli insegnanti e tutti i civili. In seguito alla condanna inflitta al nostro Paese dalla Corte europea dei diritti umani per “trattamento inumano e degradante”, si erano succedute diverse misure normative che, con vari livelli di efficacia, avevano assicurato un certo decongestionamento. Quando nel 2017 gli effetti delle riforme hanno cominciato a perdere efficacia, il tasso di suicidi è tornato a salire. L’impennata degli ultimi due anni è invece da collegare alla diffusione del Covid e al conseguente blocco di tutte le attività trattamentali, dei laboratori, delle scuole, dell’ingresso dei volontari.

Guardando ai tassi di suicidi nella popolazione libera rispetto a quelli che avvengono tra i carcerati, si evince che questi ultimi sono oltre dieci volte in più rispetto alla società esterna. Dal confronto con i sistemi penitenziari degli altri paesi emerge che il nostro tasso di suicidi ben superiore rispetto alla media europea. L’Italia è uno dei paesi con meno suicidi, ma nello stesso tempo è tra i primi per episodi del genere all’interno delle prigioni.

Anche dalle statistiche relative agli atti di autolesionismo si nota una maggiore incidenza negli istituti dove più grave è il sovraffollamento. L’ovvia conclusione, suffragata dai dati, è che le condizioni di detenzione devono avere un qualche ruolo nell’esacerbare situazioni già di per sé problematiche.

Un rimedio a tutti questi stati di disagio dovrebbe venire dagli psichiatri e psicologi presenti all’interno degli istituti. I vecchi manicomi criminali furono sostituiti, in seguito alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, dagli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Questi, a loro volta, dal 2015 sono stati rimpiazzati dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di competenza sanitaria, presso le ASL.

Qui sarebbe da aprire un discorso a parte, molto lungo e complesso: ci riferiamo alle politiche di risparmio che negli ultimi anni hanno colpito tutti i settori della Pubblica Amministrazione. Nella sanità come nell’istruzione e ricerca, nelle forze dell’ordine e nella giustizia, ci sono stati tagli dei costi talmente drastici da pregiudicare gravemente la qualità dei servizi offerti. Possiamo testimoniare direttamente il disastroso calo di personale (tra pensionamenti non rimpiazzati e mancate nuove assunzioni) nelle due istituzioni in cui ci imbattiamo ogni giorno: scuola e carcere. Qui in particolare, dove i nervi sono scoperti e si combatte in prima linea, gli effetti emergono immediatamente e prepotentemente. Ma data l’analoga situazione che si vive in altri settori strategici sorge il dubbio che, rinunciando a certe funzioni essenziali, lo Stato non venga meno alla sua stessa ragione d’essere.

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