di Davide Trotta

In queste settimane si agita un tema di vitale importanza per migliaia di docenti italiani neo assunti in ruolo a settembre 2021, cioè la questione riguardante il vincolo triennale alla sede scolastica, la cui assegnazione in molti casi non è stata né cercata né voluta ma erogata da un asettico algoritmo introdotto dal ministro Bianchi, foriero di numerosi errori e quindi di ricorsi.

Questa sentenza inoppugnabile per molti insegnanti grava come un macigno sulle loro vite, esiliati per tre anni in una sede che li costringe lontani dagli affetti familiari o a rivedere i piani della propria vita in nome della conclamata “continuità didattica”. Ma il discorso sulla continuità, anche se a malincuore, sarebbe ancora accettabile, se solo non celasse tra le pieghe una grottesca ingiustizia, per cui gli assunti da Graduatoria provinciale (Gps) I fascia si vedono negata qualsivoglia possibilità di accedere alla domanda di trasferimento, invece aperta agli immessi in ruolo attraverso concorso.

Evidentemente si tratta di un dualismo di platonica memoria, per cui tutto quanto è sulla Terra è copia sbiadita degli originali residenti in una superiore sede: quindi qui gli originali sarebbero coloro che hanno sostenuto il concorso mentre gli altri una copia sbiadita. Insomma il Paese, che mira ad annullare le differenze o a livellarle in nome della retorica bolsa del politicamente corretto, finisce per rivelarne tutta la fallacia e infondatezza. Prova ne è il fatto che, anche a fronte di una immissione in ruolo, non si perde il vizio di discriminare, distinguere, etichettare: come se gli sciamannati assunti da prima fascia non avessero conseguito l’abilitazione all’insegnamento, alias Tfa, che – giova ricordarlo – era a stretto numero chiuso e costellato di prove previo accesso. Io personalmente sostenni una preliminare, una versione di latino, un’analisi del testo di italiano e un orale, un percorso che ricorda vagamente le prove previste da un concorso.

Ora, delle due l’una: i malcapitati di prima fascia o meriterebbero di accedere alla domanda di mobilità oppure hanno sostenuto prove farsa, inferiori a quelle di un concorso, il che dovrebbe preoccupare anzitutto le famiglie che in questi anni avrebbero avuto docenti, sì, migliori di un passante, ma ancora sciancati quanto a preparazione e competenze. Ma in fin dei conti nella distinzione tra sì concorso e no concorso, con tutte le conseguenze annesse (anche esclusione dal bonus di 500 euro nell’anno di prova e, alla fine di questo ulteriore, interrogazione sulle proprie materie di insegnamento per mano di una commissione esterna incaricata di convalidare o meno il superamento di tale prova), trapela un meccanismo che abbiamo visto consolidato proprio ultimamente per esempio nella contrapposizione no vax/pro vax. Contrapposizioni che, se da un lato sembrano obbedire al precetto di lunga lena del divide et impera, dall’altro tradiscono l’incapacità per chi governa di giungere a una sintesi compiuta, in grado di ricomporre la realtà già per sua natura disgregata, e così ulteriormente e inutilmente scomposta.

Interessante è anche il motivo sotteso a tale impossibilità di presentare domanda di mobilità: i provenienti da I fascia Gps risultano per quest’anno ancora supplenti e il loro contratto diventerà a tempo indeterminato soltanto una volta superato l’anno di prova con retrodatazione giuridica al 1° settembre 2021 e triplo carpiato. Soltanto dall’anno prossimo costoro potranno presentare domanda di mobilità, con benevola riduzione del vincolo da tre a due anni. In ogni caso se si risulta ancora formalmente supplenti per quest’anno, perché negare la possibilità di cambiare scuola, com’è prassi per un supplente? Ennesimo schiaffo alla categoria, su cui, lo ricordo, già si erano espressi i giudici di Lussemburgo condannando la violazione italiana della normativa UE 1999/70 sul contratto a termine nella normativa scolastica, la quale consente la reiterazione infinita di tali contratti.

Ma, si obietterà, un simile ragionamento è da egoisti, perché l’insegnante deve gioire per il bene dello studente che potrà fruire della scienza del suo prof modello per tre anni di fila, come se quel prof non avesse una sua vita, con allegato un pacchetto di progetti e desideri. Ma in fin dei conti sembra sempre più consolidata la tendenza della scuola italiana a indulgere a famiglie e utenza, mettendo in secondo piano le esigenze dei suoi dipendenti, come se questi fossero in un certo senso camerieri al servizio del cliente, che si direbbe proprio aver sempre ragione, considerato che a questa “clientela” sono appese le sorti presenti e future dei lavoratori della scuola.

Viene da chiedersi se questo Stato così dolce e amorevole verso i suoi studenti sia lo stesso che qualche settimana fa ha affondato in maniera piuttosto decisa i manganelli sui loro volti grondanti di sangue in piazza. Viene da chiedersi anche se sia lo stesso Stato che da anni avalla l’alternanza scuola-lavoro: quel sano addestramento al mondo del lavoro che, oltre a deprivare gli insegnanti dei loro studenti per mesi (note in merito le lamentele di insegnanti che da un certo punto dell’anno in avanti gli studenti li vedono solo in cartolina), prefigura alle generazioni future probabili destini di sfruttamento sul lavoro.

Parlare di libertà in questo contesto appare una disinvoltura eccessiva, a meno di non credere nella libertà un poco logora, esaltata da Plinio il Giovane nel suo Panegirico a Traiano: “Ci ordini di essere liberi: lo saremo; ci ordini di manifestare apertamente il nostro pensiero: e noi lo faremo!”.

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