di Carmelo Sant’Angelo

Nel 1992 la fine della prima Repubblica era già scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Nel 1970, anno in cui si attua il decentramento amministrativo, il rapporto debito/Pil era al 37,1%. Appena due anni dopo, completato il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, il suddetto rapporto balzò al 47,7%. Già in culla le neonate Regioni si rivelarono efficienti macchine mangiasoldi. Alla fine del governo Spadolini (1983) il rapporto in parola era al 70% per spiccare il volo fino al 92% con il governo Craxi (1987).

Nel 1992, anno di Tangentopoli, il deficit del bilancio dello Stato aveva raggiunto la cifra monstre di 150 mila miliardi con un rapporto debito/Pil del 118%. La soluzione che Craxi da anni caldeggiava era la cosiddetta “lira pesante” che avrebbe dovuto darci dignità di fronte al marco tedesco. Si trattava, in realtà, di una mascherata svalutazione sudamericana. Ciampi era, invece, convinto di riuscire a evitare la svalutazione: lo Sme impegnava la Germania a una difesa illimitata dei cambi fissi. Ma l’11 settembre del 1992 la Germania abbandonò l’Italia al suo destino.

Ciampi svalutò la lira del 7% e resistette altri tre giorni prima di accettare l’inevitabile. L’emorragia di riserve valutarie raggiunse il parossismo, poi improvvisamente finì il 16 settembre alle ore 17 quando chiusero i mercati e l’Italia uscì dallo Sme. Come si era arrivati, nel volgere di un decennio, alla bancarotta? Rubavano in troppi e a piene mani. Il Centro Einaudi stimò che, dal 1980 in avanti, ogni anno tra i 15 e i 25 miliardi della spesa pubblica finivano in tangenti. Una qualsiasi società avrebbe dovuto portare i libri in tribunale. In tribunale, invece, arrivarono frotte di imprenditori a confessare tangenti richieste ed elargite. La prima Repubblica morì per la bulimia dei partiti, il pool di Mani Pulite si limitò a redigere il certificato di morte.

Poi arrivò l’Egoarca, uno dei soprannomi affibbiati dal prof. Cordero, e convinse metà degli italiani che era in atto una persecuzione giudiziaria, una lotta tra la politica e la magistratura. A guardare i dati della popolazione carceraria si direbbe che la guerra aveva persino varcato i confini nazionali, attesa la copiosa presenza di extracomunitari coinvolti nel traffico di sostanze stupefacenti. La sedicente sinistra faceva finta di opporsi (adesso non fa nemmeno questo) e coglieva gioiosa i frutti avvelenati del berlusconismo. La “dittatura giudiziaria” si declina, in realtà, in trent’anni di bullismo della politica nei confronti della magistratura.

A correre in aiuto del bullo arrivarono i giornalisti, ancelle del potere, e quei cittadini che, con il loro voto, si schierarono dalla parte dei ladri. Non ho mai visto un condominio che tifa per l’Amministratore che ha svuotato i conti, non pagando le utenze. Eppure è ciò che è avvenuto: il lavaggio del cervello fatto dalla televisione ha portato il popolo a scegliere Barabba. Premiamo gli eredi di coloro che drenarono ingenti risorse dalla casse erariali, privandoci del welfare e del godimento dei beni pubblici.

Oggi assistiamo al colpo di grazia: la riforma Cartabia stabilisce per legge la giustizia censitaria e mette a repentaglio il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, avocando al Parlamento il potere di dettare i criteri guida nell’attività investigativa. Le riforme nel cassetto contengono ulteriori vendette postume nei confronti dei magistrati onesti. Non si spiega altrimenti la previsione che il magistrato candidato, ma non eletto, debba ugualmente dismettere la toga. Ciò avviene mentre un referendum vuole abolire la legge Severino. In Parlamento, quindi, ci dovrebbero andare i condannati, ma non i magistrati.

Il trentennale di Tangentopoli ha solo una chiave di lettura: l’atavico tentativo delle classi dominanti di sottrarsi alla legge. E’ il Marchese del Grillo che alberga in ciascuno di noi che non lascia alcuna speranza a questo Paese.

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