Cara Capitana Carola Rackete,

l’intervista che hai rilasciato a Fabio Tonacci è molto importante: permette di spacchettare la complessità, approfondire i dettagli significanti delle cose. Sono appena tornato dalla mia seconda missione, imbarcato come medico di bordo sul piccolo rimorchiatore Mare Jonio della Ong italiana Mediterranea Saving Humans. Ovviamente ciò che scrivo è del tutto personale e non ha ambizione di riflettere in alcun modo la posizione degli amici di Mediterranea.

Abbiamo avuto a bordo oltre 200 esseri umani. Siamo rimasti ancorati per due notti a Lampedusa. Abbiamo poi ottenuto di trasferire 140 ospiti e dirigerci a Pozzallo per lo sbarco dei restanti. Per due giorni Mare Jonio è rimasta stracolma di persone e immondizia; stracolme erano le latrine. Verso la fine non avevamo più acqua per lavarci. Così tanti loro e così pochi in equipaggio da non riuscire neppure a preparare pasti caldi. Nonostante i nostri sforzi, a causa della lentezza nell’ottenere il permesso di sbarco, abbiamo ricevuto un trattamento inumano e degradante, pur rimanendo un hotel a 3 stelle per chi proveniva da un lager libico.

La navigazione con alte onde verso Pozzallo ha infine regalato agli ultimi 70 una notte di vomito e cefalea. In quelle ore a bordo, comandante, capomissione e tutti noi comunicavamo con il back office a terra. Che fare? Entriamo a Lampedusa senza permesso e li denunciamo per omissione di soccorso, oppure continuiamo a negoziare accettando compromessi? In mare la decisione finale è del comandante; cionondimeno il lavoro è di squadra e la freddezza deve superare l’emotività.

Una legge ingiusta e la responsabilità verso le persone a bordo indurrebbero una capitana coraggiosa a forzare il blocco, tra gli applausi scroscianti degli attivisti. Però, se fosse vero che questo comportamento determinerà maggiori morti nel Mediterraneo, quel coraggio può diventare avventatezza. La violazione di una legge ingiusta, rispettando una legge di rango superiore, comporta conseguenze non solo per il comandante: multe, sequestri, sanzioni, ritorsioni politiche possono determinare un lunghissimo stop all’azione in mare per tutta la Ong, con la conseguenza di meno “ambulanze del mare in giro” e più morti. Non offro soluzioni, né giudizi sui comportamenti da adottare: è il dilemma tra umanitario e politico, quando come oggi l’umanitario è divenuto terreno di conflitto politico.

Non so se la Ong Sea Watch abbia apprezzato la tua intervista, io sì. Ma tu ed io facciamo/faremo una sola o poche missioni di ricerca e soccorso. Le Ong del mare hanno il dovere di stare in mare sempre. Ritengo sia necessario un dibattito approfondito di coordinamento tra Ong in mare, con i politici che dimostrino di occuparsi seriamente di queste tematiche (una sorta di comitato di garanti) e magari anche le corporazioni armatoriali. Serve uniformità di comportamenti e decidere chi debba fare cosa, teorizzando in anticipo comportamenti comuni nei possibili scenari che potrebbero presentarsi. Un vero codice di condotta (non minnitiano) delle Ong.

Nella teoria e pratica della nonviolenza gandhiana, il dovere di violare una legge ingiusta coincide con quello di autodenunciarsi; ma a seconda della singola situazione, con poco tempo a disposizione per decidere come comportarsi, tutto deve essere prefigurato e dichiarato in anticipo da una strategia con obiettivi precisi e condivisi. Potranno mai i governi bloccare tutte le navi Ong e al tempo stesso continuare a rifiutare di rispondere anche loro alle chiamate di soccorso?

Questa riflessione di metodo spero sia utile per rendere completa la storia, non quella personale di ognuno di noi, ma quella della vergogna delle morti in mare e dei respingimenti di chi scappa dai lager libici.

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