Un milione e mezzo di sfollati interni, 38mila rifugiati nei Paesi vicini, oltre 2.600 scuole e più di 300 dispensari chiusi. Basterebbero questi numeri per dare un’idea della profondità della crisi che attanaglia il Burkina Faso e che è all’origine del colpo di Stato in corso da ieri nella capitale Ouagadougou che ha portato all’arresto del presidente Roch Marc Christian Kaboré.

Sembra trascorso un secolo dal 2015, quando enormi manifestazioni di piazza erano riuscite a rovesciare l’eterno despota Blaise Compaoré che opprimeva il Paese da quando il visionario Thomas Sankara era stato ucciso. Lui, Compaoré, che di Sankara era stato compagno di lotta, ne aveva preso il posto e le ricostruzioni storiche danno ormai per certa la sua partecipazione al golpe che aveva rovesciato l’amico e portato alla sua uccisione.

Le speranze del 2015 si sono rapidamente sgretolate davanti all’incalzare del jihadismo e del banditismo, due realtà (spesso sovrapposte) che hanno ormai in mano ampie fette del Paese e che provocano paura, incertezza e paralisi nella quasi totalità del Burkina Faso. Per questo, una fonte raggiunta dal Ilfattoquotidiano.it questa mattina racconta che il clima in queste ore non è di preoccupazione, ma di sollievo: “Qualunque governo sarà meglio di questo. Non se ne poteva più!”. Un governo incapace di affrontare i crescenti problemi di sicurezza, inerte e sordo alle richieste della popolazione. Anzi, da mesi le manifestazioni di protesta, in particolare dei giovani, venivano sistematicamente represse. E soprattutto da tempo vengono continuamente sottoposti a restrizioni i social e l’accesso al web. Anche da ieri mattina – quando sono giunte le prime confuse notizie di “spari dalle caserme” – comunicare con i burkinabé è stato quasi impossibile: internet risulta bloccato, niente social, niente Whatsapp. Restano attive solo le costosissime telefonate tradizionali.

Il “Paese degli uomini integri” è ormai l’ombra di se stesso: dietro ai clan criminali che infestano soprattutto il nord-est del Burkina, si muovono interessi di vario genere. Da un lato, l’ideologia jihadista che, dopo il crollo della Libia di Gheddafi, dal nord si è spostata in tutta la fascia del Sahel, con varie sigle che raggruppano i combattenti e che reclutano sempre più ragazzi locali, vittime di disoccupazione, emarginazione, analfabetismo o scarsa istruzione. Dall’altro, varie forme di banditismo preesistenti che hanno spesso creato un sodalizio con i nuovi gruppi jihadisti. Sullo sfondo, ingenti traffici illegali di armi, droga, business dei sequestri, nonché lo sfruttamento artigianale delle miniere d’oro. E la totale mancanza di fiducia in uno Stato che non solo è assente, ma quando c’è è vessatorio.

Per ovviare al caos, da tempo si sono costituite, specie nell’est del paese, delle milizie locali di autodifesa. Il governo ha varato una legge che legalizza i “Volontari per la Difesa della Patria”, cui sono richiesti solo 14 giorni di formazione: la “soluzione” ha finito però per inasprire le fratture nelle comunità locali, spaccate fra filogovernativi e filoestremisti. In questo contesto, da mesi gli attacchi terroristici anche sui civili sono sempre più ingenti e sanguinosi, come la strage di Sohlan, che lo scorso giugno aveva provocato 160 morti in una notte.

Da ultimo, non va dimenticato il diffuso sentimento antifrancese che ritiene di vedere nelle politiche imperialiste d’Oltralpe una delle cause dei mali diffusi in Burkina e in tutta l’Africa occidentale: in tanti ritengono che negli anni passati gli interventi militari francesi siano stati inefficaci, o in alcuni casi addirittura ambigui nei rapporti con alcune forze jihadiste. Per non parlare delle ingerenze nelle decisioni di politica interna dell’area. La recente svolta di Macron, che sta progressivamente riducendo la presenza militare francese nel Sahel, potrebbe via via ridurre questo risentimento, che per ora resta però potentissimo, tanto che di recente la popolazione aveva bloccato il transito di un ingente convoglio militare francese in transito tra Burkina Faso e Niger.

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