Negli atenei italiani i professori ordinari hanno in media quasi 60 anni e le donne che occupano i posti più importanti restano sempre meno degli uomini. Non solo. Il sistema universitario è ancora basato su una piramide con pochi (19,6%) ordinari al vertice e tanti, troppi (47,9%) ricercatori alla base. È questa la fotografia che esce dal focus pubblicato dal ministero dell’Università sul personale docente e non nell’anno accademico 2020/21. Un quadro che la sociologa Chiara Saraceno, che è stata anche professoressa all’Università degli Studi di Torino, spiega definendo “la filiera della carriera negli atenei lunga e accidentata a causa della mancanza di soldi per fare nuovi bandi”. Parole che diventano più dure quando si affronta la questione di genere: “Anche lì, dove ci sono gli intellettuali, purtroppo su questo tema c’è ancora il paraocchi”, dice Saraceno.

Il primo dato che balza all’occhio è quello anagrafico. L’età media dei docenti degli atenei statali è pari a 52 anni: si va dai 58 anni dei professori ordinari, ai 52 anni dei professori associati fino ai 46 anni dei ricercatori. Includendo anche i titolari di assegni di ricerca, che in media hanno 34 anni, l’età media complessiva scende a 48 anni. La distribuzione per età e per qualifica evidenzia che la quasi totalità dei professori ordinari (92%) e poco meno dei 2/3 degli associati (63%) si collocano al di sopra dell’età media complessiva di tutto il personale docente e ricercatore (48 anni). Viceversa quasi tutti i titolari di assegni di ricerca (97%) e ben più della metà dei ricercatori (62%) hanno un’età pari o inferiore alla media. Nella classe di età fino a 30 anni sono presenti quasi esclusivamente i titolari di assegni di ricerca che contribuiscono a ridurre l’età media complessiva.

A questa descrizione si aggiunge quella che simbolicamente viene raffigurata con una piramide. Nell’anno accademico 2020/21 il personale docente e ricercatore dei soli atenei statali era di 67.253 unità: troviamo alla base coloro che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività di ricerca (titolari di assegni di ricerca e ricercatori a tempo determinato e indeterminato) e nella posizione apicale i professori ordinari. In mezzo, gli associati (32%).

“Le due questioni – spiega la sociologa Saraceno – sono legate. Negli ultimi anni le università hanno reclutato più ricercatori che professori ordinari. Si entra con il contagocce e si va avanti allo stesso modo. Il problema è quello della spesa: per bandire un posto di ordinario servono i finanziamenti per gli stipendi. Spesso per poterlo fare bisogna attendere che qualche ordinario vada in pensione e vi sia di conseguenza una ‘dote’ a disposizione”. E’ un processo lungo e complicato che lascia i ricercatori in coda per anni: “Molte mie allieve sono diventate ordinarie a cinquant’anni”.

L’altro nodo è legato al gender gap. Tra il personale amministrativo si registrano il 60% di donne, le ricercatrici sono il 47% mentre al vertice della piramide la percentuale femminile scende al 35%. “Non mancano – dice Saraceno – le donne che si laureano, ma c’è uno squilibrio di genere perché manca una valorizzazione del genere femminile anche negli atenei. Ho parlato con presidi di facoltà scientifiche che non si accorgevano del problema della mancanza di donne. C’è ancora il paraocchi. Basti pensare che la questione della maternità è ancora considerata anche in questi contesti un problema, mentre in Paesi come la Svezia può capitare che persino un uomo segnali nel suo curriculum il congedo parentale”.

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