Dopo troppe chiacchiere alle spalle dei malati, è ormai chiaro quale sia il vulnus nella distribuzione della cannabis medica ai pazienti terminali, ai sofferenti di Parkinson, Alzheimer, fibromialgia, epilessia e tante altre gravi patologie. Ed è proprio la confusione fra la proibizione della marijuana ad uso ludico e quella destinata a chi soffre ad aver creato numerosi equivoci, alimentati anche da secolari pregiudizi anche se, dal 1840 ad oggi, sono ben 26.626 i lavori scientifici pubblicati che confermano gli effetti terapeutici della cannabis.

Atteggiamenti ostili hanno pesato, illo tempore, sulla marijuana: anche per precisi interessi economici. Pensiamo al magnate dei giornali Usa William Randolph Hearst che, già negli anni Trenta, per utilizzare solo lui la cannabis (o canapa) a basso prezzo, per stampare i propri giornali in alternativa alla cellulosa attivò, in linea con il cosiddetto yellow jounalism (le odierne fake news) una potente campagna che portò alla proibizione della pianta da parte del presidente Roosevelt. Persistono però, a tutt’oggi, ombre ideologiche su questa controversa pianta.

“Mettiamo anche che, nel mondo più liberale che ci sia, la cannabis venga liberalizzata”, spiega il dottor Marco Bertolotto, primario di Terapia del dolore e Cure palliative al Santa Corona di Pietra Ligure (del resto una legge in questo senso, se mai verrà approvata, è oggi al vaglio della Camera e il risultato di un referendum staziona alla Corte Costituzionale). “Per noi medici il problema è un altro. La cannabis terapeutica va utilizzata con continuità, nella stessa quantità come si fa per un farmaco, e per un risultato sicuro abbiamo bisogno di un prodotto perfettamente standardizzato, coltivato da un’azienda farmaceutica o agricola ad altissima tecnologia: il terreno in cui la cannabis viene coltivata dev’essere privo di sostanze nocive come i metalli pesanti: la cannabis, infatti, è un fitoaccumulatore che assorbe tutto ciò che sta nella terra, ma anche nell’aria, sennò può essere nociva. Inoltre la cannabis che si vende oggi al mercato nero, rispetto a quella degli anni sessantottini – e ci sono degli studi su questo – spesso viaggia con un THC, un suo principio attivo, che può arrivare al 30-40% contro il 3-4% di allora. E spesso ci spruzzano sopra la chetamina per creare particolari effetti”.

Ma veniamo al nodo gordiano della vicenda: “Al Ministero della Salute c’è un ufficio apposito per la cannabis terapeutica in base a una risoluzione dell’Onu del ’64” prosegue Bertolotto. “In realtà la quantità ordinata è sottostimata di almeno due terzi. E la cannabis manca. Adesso, per esempio, io ho attivi quasi duemila pazienti che restano, per ora, senza terapia. Il Ministero olandese che fornisce mensilmente la cannabis all’Italia manda quella che chiediamo. Inizialmente gli italiani hanno detto: ce la produciamo noi con l’Istituto farmaceutico militare di Firenze che, però, senza una specifica preparazione, non può farcela. Oggi producono cinquanta, massimo cento chili all’anno. In Germania, che è partita cinque anni dopo di noi, se ne producono dalle sei alle otto tonnellate. Ne ho parlato spesso con i politici: non serve una nuova legge, quella che abbiamo è una delle migliori al mondo. Tanto che vennero da noi molte aziende, israeliane, canadesi e altre ancora che si offrivano di produrre cannabis in Italia, ma le hanno stancate tutte a forza di cavilli e rinvii. In realtà, non c’è resistenza politica, semmai indifferenza trasversale: la resistenza sta, invece, all’interno dell’amministrazione sanitaria. Noi medici che ci occupiamo di questo tema dicevamo ai politici: guardate che la cannabis prodotta non ci basta. Loro chiamavano i funzionari del Ministero della Sanità e loro obiettavano: non è vero, non serve, negando persino i dati. Vorrei vedere se mancassero i farmaci antitumorali o per il diabete… a pensar male direi: manca il business? Spero, a questo punto, che comincino a produrla le industrie farmaceutiche, oggi impotenti per via del brevetto mancante, brevetto che esiste invece per la somministrazione”.

Qual è la trafila? “Il paziente con la mia ricetta deve andare in una farmacia galenica o in quelle degli ospedali”. E qui ogni regione ha legiferato a modo suo. In Lombardia, ad esempio, le farmacie non fanno pagare la cannabis, basta presentare la ricetta del medico di base su richiesta di un centro antidolore (a Milano c’è, ad esempio, la Clinn, un organismo che utilizza il sistema ennacannabinoide e che fornisce ai pazienti anche un sistema di monitoraggio). In altre regioni non è così: in Liguria la si può avere gratis solo in ospedale, a Savona, pensate ai disagi di un malato, ad esempio di una malattia degenerativa che abita a Genova o a La Spezia.

Uno spiraglio proprio nei giorni scorsi si è aperto: il sottosegretario Andrea Costa ha ammesso i disagi attuali (“Oggi il fabbisogno è di 1400 chili l’anno, ma l’Istituto farmaceutico militare di Firenze è in grado di produrne 300”) e ha promesso che “nelle prossime settimane saranno pronti i bandi per la coltivazione di cannabis terapeutica da parte di aziende pubbliche e private”. Ne sarebbero felici anche i farmacisti che ribattono come “nelle regioni in cui le preparazioni galeniche della cannabis non sono rimborsate, il costo per i pazienti può arrivare anche a 500 euro al mese”. I malati, speranzosi, ringraziano.

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