Il momento della verità sarà il 23 ottobre quando, al termine di un periodo di grazia di 30 giorni, Evergrande risulterà insolvente rispetto a una cedola da 83,5 milioni di dollari (70 milioni di euro) che doveva corrispondere a fine settembre. Nelle scorse settimane, il conglomerato di Shenzhen, oggi di nuovo a picco al suo rientro in borsa con un calo di oltre il 10%, non aveva onorato altri debiti in scadenza per circa 193 milioni di dollari (163 milioni di euro) e il quartier generale ha annunciato che difficilmente avrà la liquidità necessaria per farlo. Nel frattempo, è andato in fumo il tentativo di vendere il 50,1% di Evergrande Property Services Group, la divisione di servizi immobiliari, a Hopson Development Holdings, un concorrente più piccolo. Operazione che avrebbe consentito a Evergrande di incassare 2,6 miliardi di dollari (2,2 miliardi di euro), liquidità che sarebbe stata preziosa per onorare le scadenze.

Indiscrezioni riportano che sia stato il governo provinciale del Guangdong – che svolge il ruolo di supervisore nella ristrutturazione di Evergrande – a mettersi di traverso. Pechino ha infatti delegato ai governi locali la gestione delle imprese immobiliari in difficoltà. Le autorità politiche devono fare in modo che la crisi del settore non crei malcontento e destabilizzi la società nel suo insieme. Non è chiaro perché il governo provinciale si sia opposto alla vendita a Hopson Development, ma il sospetto è che l’intenzione politica sia ormai quella di spingere verso un default controllato di Evergrande che serva da monito a tutti gli altri. Basta giochini delle tre carte, insomma, con spostamento del debito di qui e di là. Lo stop alla “bolla garantita” è stato del resto voluto proprio da Pechino, con l’introduzione delle tre linee rosse che limitano l’indebitamento infinito delle immobiliari.

Posto che esiste diffuso consenso nel ritenere ormai segnato il destino di Evergrande, molti osservatori si chiedono quale sia a questo punto il rischio di contagio a tutto il settore immobiliare cinese, le cui difficoltà hanno già contribuito al calo della crescita nel terzo trimestre (+4,9 per cento) e che secondo Nomura ha accumulato un debito totale di circa 5,24 trilioni di dollari, che equivale a circa un terzo del Pil cinese. Sono al momento diverse le imprese che non riescono a pagare il proprio debito sulle obbligazioni. Oltre a Evergrande, nell’ultima settimana si sono susseguiti i casi di Fantasia, Modern Land e Sinic, mentre l’agenzia Moody’s ha abbassato il rating di Kaisa. Le autorità monetarie del paese hanno comunicato alle imprese che devono pagare i loro debiti anche esteri e negano la possibilità di un contagio, ma non è ancora perfettamente chiara la strategia complessiva, fermo restando che la precedenza va a acquirenti di case, piccoli investitori e fornitori domestici, per esigenza politica.

Il premier Liu He, che è il plenipotenziario di Xi Jinping per le questioni economiche, ha dichiarato che i rischi sono controllabili e che la ragionevole domanda di capitale da parte delle società immobiliari sarà soddisfatta. Gli ha fatto eco il presidente dell’autorità di regolamentazione della Borsa, Yi Huiman, dicendo che le autorità gestiranno adeguatamente i rischi di insolvenza e cercheranno di frenare il debito eccessivo. “Dobbiamo migliorare l’efficacia del meccanismo di vincolo sul finanziamento del debito”, ha affermato Yi secondo quanto riporta Xinhua. Insomma, le imprese solide avranno nuovo credito, le altre no. Ci sono imprese solide? È la domanda che molti si fanno. Il settore cinese del mattone è, secondo alcuni economisti. la single asset class (classe di attività) di maggiore impatto sul Pil globale, di cui rappresenterebbe circa il 2-3 per cento, per un valore di circa 55mila miliardi di dollari Usa. Un suo crollo potrebbe sia avere ricadute pesanti sia sul sistema finanziario globale, sia condizionare pesantemente il mercato internazionale delle materie prime e dei prodotti industriali.

Ogni anno, il giro d’affari dell’immobiliare equivale a circa il 29 per cento del Pil cinese che – osserva il quotidiano britannico The Guardian – “è molto di più del 10-20 per cento tipico delle nazioni più sviluppate”. A settembre, i prezzi immobiliari nelle 70 maggiori città cinesi sono diminuiti dello 0,8 per cento dopo anni di crescita costante e sostenuta, mentre anche gli investimenti sono crollati per la prima volta dallo scorso anno, il che sembrerebbe rivelare un malessere profondo, non una semplice fase di passaggio. Se Evergrande dovesse fallire, il suo patrimonio immobiliare potrebbe inondare il mercato e i prezzi diminuirebbero ulteriormente, creando ulteriori grattacapi alle imprese assetate di liquidità. Paradossalmente, questo è proprio ciò che le autorità politiche cinesi perseguono invece da tempo.

È dal 2016 che, di fronte al crescere della bolla e alla difficoltà per molte famiglie di accedere ad alloggi decenti, Xi Jinping dice: “La casa è per viverci, non per speculare”. Per dissuadere ulteriore speculazione, qualcuno azzarda che potrebbe addirittura essere in arrivo la famosa tassa sugli immobili, famosa perché se ne parla da almeno dieci anni senza che la si introduca davvero, se non a livello sperimentale e molto discreto, come a Shanghai e Chongqing. I cinesi oggi pagano solo una tassa all’atto di acquisto della casa, il che significa che nessuno ha esigenza di affittare la propria seconda-terza-quarta casa per coprire le spese: tanto vale lasciarla lì, vuota, finché non si trova un acquirente disposto a svenarsi per poi magari speculare a sua volta. Una tassa sugli immobili costringerebbe invece molti proprietari ad affittare o vendere le case, il che dovrebbe abbassare i prezzi, e disincentivare la speculazione. Inoltre, consentirebbe ai governi locali di fare cassa senza dover ricorrere alla concessione di terreni alle imprese immobiliari, che è stato finora il metodo privilegiato.

Tuttavia, se ottime ragioni sociali, economiche e politiche suggeriscono l’introduzione della tassa, sono state finora preponderanti le motivazioni contrarie. Da quando il Partito-stato ha consentito la proprietà degli immobili, sono state le stesse famiglie cinesi a cavalcare l’onda dell’arricchimento attraverso il mattone: oggi, l’80% della loro ricchezza è investito nell’immobiliare. Contribuisce il fatto che gli interessi che le banche pagano sui risparmi sono forzatamente mantenuti al di sotto dei valori di mercato. Strategia utilizzata da Pechino per consentire alle aziende nazionali di finanziarsi a basso costo. Sta di fatto che una tassa svaluterebbe il patrimonio netto delle famiglie e creerebbe malcontento. Per non parlare della stessa élite del Partito che circonda Xi Jinping, finora del tutto contraria. Non c’è da meravigliarsi, se si considera che secondo alcune stime il 70% del patrimonio immobiliare cinese è posseduto da un 30 per cento di proprietari, cioè l’élite stessa. In definitiva, il grosso problema per Pechino è soprattutto quello di sgonfiare la bolla senza mandare l’economia a gambe all’aria. Cioè, far capire a tutti che è finita l’era del mattone senza però deprimere ulteriormente un mercato immobiliare già sotto pressione e da cui dipende buona parte della ricchezza nazionale. Per evitare la reazione a catena.

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