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Squid Game, la serie tv che trasforma il gioco in un massacro a colori pastello (spoiler)

Breve. Di che parla? Una misteriosa organizzazione 'recluta' 456 persone. Quello che lega i quasi 500, destinati per lo più a morire trucidati, è il fatto di avere grandi difficoltà economiche, di vivere ai margini della società e di non vedere alcuna prospettiva di riscatto in un futuro né immediato né lontano

di Claudia Rossi

“Se Stephen King ha pensato a una trama simile nel 1982, strano che non ne abbiano preso spunto per farne una serie tv”. Chiunque abbia letto L’uomo in fuga (scritto con lo pseudonimo di Richard Bachman) avrà quasi certamente pensato a un adattamento. Celebrity Hunted, Amazon prime video, ha un vago riverbero del romanzo di King. Più di un bagliore si trova in Squid Game, la serie Netflix che è un culto in mezzo mondo, con relative incaz*ature da parte di chi vorrebbe tenere i ragazzi lontano dalla violenza seriale. Va da sé che Hwang Dong-hyuk, l’ideatore e regista, potrebbe non avere sfogliato il romanzo di King. Anche perché, se l’impianto narrativo è simile, la serie coreana ha sotto-trame e un focus del tutto imprevedibili.

Breve. Di che parla? Una misteriosa organizzazione ‘recluta’ 456 persone. Quello che lega i quasi 500, destinati per lo più a morire trucidati, è il fatto di avere grandi difficoltà economiche, di vivere ai margini della società e di non vedere alcuna prospettiva di riscatto in un futuro né immediato né lontano. I 456 vengono portati in un non luogo, un quartiere generale coloratissimo, con ambienti quasi infantili (a parte i dormitori-prigione), quasi fosse un video gioco o una fiaba horror. E infatti, si gioca. A ‘Un, due, tre stella!”, per cominciare. La conta, spalle ai concorrenti, la fa una bambola robot gigante e quando si gira chi si muove è morto. Stecchito. Fucilato. Inizia così un’odissea splatter che lega giochi per bambini a morte certa e pone ai giocatori domande di non poca importanza. Solo uno dei 465 può vincere 45600000000 won. Tra il premio e il numero dei partecipanti c’è un nesso, e non serve essere un aspirante sceneggiatore per intuirlo.

Sullo sfondo di viuzze fumose e piccoli chioschi, in una città che ricorda la prosa dello scrittore Oh Jung-hee, i concorrenti lottano. Diventano amici. Si domandano chi abbia messo in piedi la macabra gara, e per quale motivo. A metà tra videogioco e visione nemmeno troppo distorta della deriva dei reality show (mega spoiler: c’è un pubblico, sì, ed è l’unico che ‘gioca’ davvero), Squid Game è violento. Estremo, perché quello che a King, nel 1982, doveva sembrare fantascienza, qui ha un fondo scuro di verosimiglianza. La serie sud coreana è al momento la più vista in Uk ed è ai primi posti anche negli Stati Uniti.

In molti hanno tirato in mezzo The Hunger Games e Battle Royale, ma Squid Game è più infernale proprio perché inserito in una Corea del Sud quantomai reale. Parasite, il film vincitore dell’Oscar nel 2019, può essere una buona ‘misura’, più che altro per l’uso della carneficina come extrema ratio verso le disuguaglianze. È da preferire guardare la serie in coreano (sottotitolato, sì). Per imparare o migliore l’inglese ne restano mille. Questo perché i personaggi sono un’importante chiave di volta verso la credibilità: l’incomprensibilità della lingua è attenuata dalla capacità degli attori. Su tutti Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), leader per caso più che per volontà, la cui storia personale fa da crisalide a quella degli altri. Tradiresti chi ami per quella montagna di soldi? Cosa sei disposto a perdere per il riscatto sociale?

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