di Antonio Marino

Dispiace per i media che incessantemente continuano a diffondere il verbo per cui la Trattativa tra lo Stato e la mafia non sia mai esistita e, dunque, sia la Procura di Palermo sia i giudici di primo grado sono degli strambi visionari. Il dispositivo però con cui la Corte d’assise d’Appello ha assolto gli esponenti dello Stato imputati nel processo dice l’esatto contrario. Sarebbe stato molto meno preoccupante se i giudici avessero detto, come sostengono in molti, che mai uomini dei carabinieri si abbassarono a trattare con Cosa Nostra per conto dello Stato. Se fosse stato così, ciò avrebbe significato che la trattativa fu solo un teorema mai verificatosi perché mai lo Stato avrebbe potuto trattare con la sua negazione, ovvero l’Anti-Stato.

Purtroppo per loro e per noi cittadini, la sentenza emessa dai giudici d’Appello è molto più preoccupante di così. E cioè si afferma che la Trattativa ci fu – e questo è un fatto storico incontrovertibile – ma il fatto che pezzi dello Stato abbiano trattato con la mafia non costituisce reato. Ci si aspetterebbe, dunque, per lo stesso ragionamento all’inverso, un’assoluzione anche dei mafiosi, dato che le trattative si fanno in due. Invece, scopriamo che è reato per una parte (Cosa Nostra) ma non è reato per l’altra (Stato). E cioè è confermato che furono uomini del Ros dei Carabinieri ad andare da Vito Ciancimino per chiedergli di mettersi in contatto per il tramite del figlio Massimo con il medico personale di Riina, Antonino Cinà, per sondare se vi fossero margini per trattare. “Mi hanno cercato loro”, disse Riina in un’intercettazione ambientale in carcere.

Da cittadino sono molto preoccupato per il principio di diritto affermato dai giudici d’Appello e per le sue ricadute. Se lo Stato invece di combattere la criminalità tratta ed è addirittura giuridicamente legittimato a farlo, vuol dire che i sacrifici di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri che la mafia la combattevano non hanno avuto senso e non lo avranno neppure i futuri sacrifici di altri uomini dello Stato e comuni cittadini. Perché combattere la mafia se si può trattare? Borsellino sbiancò quando apprese che pezzi infedeli dello Stato avevano avviato contatti con Cosa Nostra. Lo Stato che tratta con coloro che hanno ancora le mani grondanti di sangue del collega e amico fraterno Falcone? Lo stesso Stato che, mettendosi a trattare, come certifica la sentenza di primo grado, ne ha accelerato la morte.

“Fare la guerra per fare la pace” diceva Riina. Trent’anni dopo scopriamo che Mori, De Donno e Subranni erano evidentemente inconsapevoli di star veicolando la minaccia di Cosa Nostra allo Stato, vale a dire le richieste che Riina fece recapitare per cessare le stragi, o che, peggio, sapevano ciò che facevano ma ciò che facevano era perfettamente lecito.

Trent’anni dopo scopriamo che Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, non ha in realtà trasmesso la minaccia della mafia al primo governo Berlusconi; dunque scopriamo che Mangano, capomafia di Porta Nuova, definito da Borsellino come la testa di ponte della mafia al Nord, per puro caso fu chiamato, per il tramite di Dell’Utri, nella villa di Berlusconi ad Arcore. Trent’anni dopo scopriamo che per telepatia Mangano veniva a conoscenza, addirittura prima degli stessi ministri, delle misure pro-mafia che B. si preparava a far approvare.

Trent’anni dopo scopriamo che per puro spirito di filantropia, Silvio Berlusconi versava attraverso Dell’Utri 250 milioni di lire all’anno a Cosa Nostra, anche quando andò al governo e anche durante la stagione delle bombe. E sempre per pura coincidenza, nel gennaio ’94 saltò l’attentato allo stadio Olimpico, che avrebbe messo definitivamente in ginocchio uno Stato già piegato, e solo una settimana dopo Berlusconi annunciò la fondazione di Forza Italia e la sua discesa in campo; da quel momento cessarono le bombe, che invece si erano moltiplicate dall’inizio della trattativa (Roma, Milano, Firenze). Trent’anni dopo scopriamo che lo Stato non può condannare se stesso.

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