Valutare la dichiarazione conclusiva del Global Health Summit appena concluso non è per niente facile. Si tratta di esprimere un’opinione su una lista infinita di buone intenzioni e di nobili disposizioni d’animo, di enunciati ipotetici, di petizioni di principio senza avere nessuna certezza della loro attuazione.

Detto ciò non sarò certamente io a sottovalutare il valore politico di questo summit. Resta sempre un avvenimento importante. Ma nello stesso tempo non intendo farmi impressionare dalla propaganda stucchevole di Roberto Speranza cioè di un ministro che ad ogni piè sospinto parla di “one health” senza sapere cosa questa strategia implichi. Basti vedere nel Pnrr la sua penosa proposta sul potenziamento della prevenzione che smentisce in pieno proprio lo spirito politico di “one health”.

Questo importante summit ci è stato proposto come un pacchetto coperto di sfavillanti nastri, ma che dentro ha un suo preciso core che vale la pena comprendere.

La prima cosa che colpisce è un acronimo ripetuto quasi fino all’ossessività: “SDG” ossia “obiettivi di sviluppo sostenibile”.

Nel punto 4 della dichiarazione finale si dicono due cose:
– la pandemia ha innescato “rischi enormi” per gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) dell’Occidente;
– il conseguimento di tali obiettivi da parte dei paesi ricchi è il vero obiettivo politico da raggiungere con il summit.

L’intera dichiarazione finale, infatti, ruota intorno a questo problema e fornisce una chiave di lettura importante: l’Occidente non è in pena per la sorte dei paesi più sfortunati e per la povera gente che muore ma è preoccupato per se stesso per la propria salute e per la propria economia per cui è “costretto” ad aiutare gli sfigati della terra.

La seconda cosa che colpisce è come la logica opportunista decida il significato di base di un altro concetto usato anche esso in modo ossessivo, quello di resilienza. Come tutti sanno la parola “resilienza” ha due significati: la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.

Siccome l’economia è ormai globalizzata, al fine di salvaguardare i famosi SDG si tratta di aiutare il mondo ad essere resiliente a “non rompersi” e a reagire alla pandemia. Ma essere resiliente in nessun modo significa aiutare il mondo a svilupparsi, a crescere, ad essere più libero, più giusto. La resilienza di cui parla la dichiarazione serve a ribadire lo status quo del mondo ma non cambiarlo.

La terza cosa che l’ossessione della resilienza smaschera è l’egoismo occidentale travestito da solidarietà, quello che si potrebbe chiamare “crowdfunding opportunista”. Essere costretti ad aiutare gli altri significa solidarietà obtorto collo cioè non del tutto disinteressata.

Non è un caso come giustamente ha rilevato Vittorio Agnoletto (Quotidiano sanità, 6 settembre) che il summit abbia ignorato del tutto “la proposta di moratoria per i brevetti sui vaccini, come da più parti a livello mondiale ed europeo richiesto”. Il summit si è dichiarato disponibile a fare la carità ma niente altro.

Il punto è che dati alla mano il sistema della carità non funziona e rende ancor più dipendenti i paesi bisognosi. Agnoletto parla di “bufala della filantropia” e citando l’OMS ci fa sapere che “10 Paesi, tra i quali l’Italia, hanno acquistato il 75% delle dosi di vaccino prodotte a livello mondiale mentre in Africa i vaccinati non superano al 2%”.

La quarta cosa che colpisce è che è tanto vero il discorso della “bufala della filantropia” che leggendo la dichiarazione del summit si scopre che tutta la sua filosofia di fatto poggia su un gigantesco processo di centralizzazione delle decisioni. La carità al mondo non può che essere gestita dal centro occidentale. Dal documento si evince che ad essere davvero rafforzato e rifinanziato, OMS in testa, sono tutte le organizzazioni internazionali che hanno a che fare con la salute. Ma questo non è mai compensato con uno sviluppo dei governi locali. Nella dichiarazione si parla del ruolo di leadership delle istituzioni internazionali e niente altro.

La quinta cosa da segnalare è la fuffa che si nasconde dietro la millanteria degli slogan. Questa volta tocca a “one health” (punto 16), si parla addirittura di “costruire la resilienza one Health”. A parte il fatto che passare dalla definizione di salute del ’48 dell’Oms e della nostra Costituzione (art. 32) a quella oggi di moda implica una riforma dell’idea di prevenzione che oggi non c’è. Ma sul serio qualcuno pensa di andare da chi non ha neanche gli occhi per piangere a proporre la salute come olismo?

E’ del tutto evidente che questi slogan vuoti di contenuto valgono per i ministri senza idee di riforma, come Speranza e che per parlare di olismo della salute in Africa ci vuole la sua bella faccia tosta.

In conclusione, pur apprezzando l’iniziativa e pur apprezzando alcune proposte come quelle che riguardano il personale necessario a far funzionare la sanità, rispetto al summit mi dichiaro molto deluso. Come si fa a pensare di combattere una pandemia globale con l’egoismo degli interessi, con gli slogan degli ignoranti e con la falsa solidarietà degli ipocriti?

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