“Nelle Sae ogni mattina, quando ti alzi, speri sempre di poter andar via“. A parlare al Fattoquotidiano.it è Vincenza Pala, terremotata di Pescara del Tronto, una delle frazioni del comune di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, tra le più colpite dalle scosse del 24 agosto – Ma non hai mai questa risposta, sono quattro anni che non arriva”. Come lei tanti concittadini sono in attesa di risposte. La piccola frazione, infatti, è stata totalmente rasa al suolo, e solo da poco si parla di ricostruzione, con ogni probabilità non distante dal vecchio abitato. Un luogo che per molte persone, però, ancora significa sofferenza. “Non c’è niente di certo – spiega ancora la signora Pala – Io non mi arrendo, vado avanti, ma né le istituzioni né il comune né la Regione ci hanno dato certezze”. Per i terremotati, sottolinea ancora Vincenza, che per anni ha gestito l’unico bar della frazione, “ci sono solo vincoli”. “Per esempio io non posso scegliere di ricostruire fuori dal territorio del comune, perderei ogni contributo – insiste – Né posso rinunciare alla Sae, perché perderei in questo caso l’eventuale contributo per un’altra sistemazione”. Insomma un limbo nel quale, come confermano diversi abitanti della zona Sae di Pescara del Tronto, si va avanti giorno per giorno, senza poter fare programmi.

Nel centro Italia, in tutto, più di 35mila persone vivono ancora fuori casa a distanza di cinque anni. La maggior parte percepiscono il Cas, il contributo di autonoma sistemazione. Molti vivono nelle Sae, soluzioni abitative d’emergenza, come Vincenza.

In una situazione simile, rimanere fiduciosi non è semplice, come conferma al Fatto.it Antonella Pasqualini che dal sisma vive in una Sae a Muccia, in provincia di Macerata. Qui gestisce anche l’unica tabaccheria della zona. “Oggi abbiamo capito che il terremoto è passato un pochino in secondo piano – ci confessa – E restare è veramente una cosa difficile“. Rassegnazione è la parola con cui Antonella descrive il suo stato d’animo. “Oggi è difficile cambiare le scelte del passato, ma andare avanti è uno sforzo che faccio con tanta difficoltà”. Proprio lei, appena due anni fa, ha denunciato l’inadeguatezza delle soluzioni abitative d’emergenza che, negli anni, hanno accumulato muffa sotto al pavimento, tanto da renderne necessario il rifacimento. “Sicuramente non volevamo stare nelle regge – dice ancora – ma avremmo voluto una soluzione dignitosa che durasse nel tempo“. Il problema della ricostruzione, secondo Antonella, sta nella burocrazia. “Credo che la ricostruzione partirà, ma ancora non è partita – spiega – E gli uffici sono pieni di progetti”. “Non è semplice però. Per chi deve aspettare la prospettiva di rimanere in queste strutture si allunga e con lei le ansie e le preoccupazioni”.

Anche a Tolentino la situazione sta togliendo dignità a molti terremotati, come denuncia Flavia Giombetti presidente del Comitato 30 ottobre. Qui ancora 120 persone, secondo i dati aggiornati al 19 agosto della Regione Marche, vivono in moduli container. La decisione dell’amministrazione, guidata dal sindaco di centrodestra Giuseppe Pezzanesi, di non richiedere Sae ma di costruire le cosiddette “Sae di Tolentino”, cioè appartamenti a tutti gli effetti realizzati in collaborazione con l’Erap (Ente regionale per l’abitazione pubblica), ha infatti portato a dei ritardi e così c’è chi ancora, dopo cinque anni, vive con mensa e bagni in comune. “Un ghetto“, come lo chiama Giombetti che nell’ultimo anno e mezzo è stato letteralmente recintato. Il Fattoquotidiano.it ha infatti dovuto richiedere un’autorizzazione per poter accedere, prima concessa e poi negata a causa della pandemia da coronavirus. Nessun esterno può entrare, neanche con il Green pass. “Ma il fatto – denuncia Giombetti – è che in realtà chi lavora fa avanti e indietro tutti i giorni. E soprattutto non sono tutte terremotati, ci sono anche persone con problemi socio-economici ed è tutto a carico della Protezione civile, sotto il capitolo sisma”. “Ma la verità secondo me – incalza Giombetti – è che meno persone vedono quello che c’è e meglio è. Perché questo è uno scempio. Ma le persone si dimenticano che dentro questi contenitori ci sono le vite”.

Anche Flavia è in attesa di poter rientrare nella sua abitazione, fortemente danneggiata soprattutto dalle scosse del 26 e 30 ottobre 2016. Aveva fatto domanda per uno degli appartamenti sostitutivi delle Sae ma, dopo anni di attesa, ha rinunciato non all’assegnazione, non ancora conclusa, ma alla “lista d’attesa”, perdendo così anche il Cas, il contributo per l’autonoma sistemazione, al quale aveva diritto. “Se si chiamano Soluzioni abitative d’emergenza un motivo ci sarà – conclude – altrimenti si chiama operazione immobiliare. Ma non deve essere fatta sulla pelle dei terremotati“.

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