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Raffaella Carrà, come e perché è diventata (vera) icona Lgbtq+

«Raffaella no es una mujer. Es un estilo de vida», ha detto Pedro Almodovar con una sintesi efficace e indimenticabile. «Raffaella non è una donna, è uno stile di vita». E come dargli torto. Mentre il mito cresceva, la sua battaglia al fianco dei gay non è stata mai scalfita neppure dalle critiche più stereotipate che colpivano il movimento. «La lobby gay? Mai conosciuta. Le uniche lobby sono in politica e negli affari», rispose a Gramellini. E quando lui le chiese dell’esibizionismo colorato (e inoffensivo) dei Pride, la risposta fu nuovamente tranchant: «Tra loro ci sono degli esibizionisti. Anche dei ladri e dei delinquenti, se è per questo. Come tra gli etero». Touché. Raffa di lotta e di pailettes

di Francesco Canino

Quando ancora la parola gay ancora non esisteva nel vocabolario italiano, Raffaella Carrà era già un’icona gay. Fine anni ’60, in lontananza l’eco dei moti di Stonewall. Primi mesi del 1971, la nascita a Torino del movimento Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Mentre gli omosessuali venivano accettati da una ristretta borghesia culturale e aristocratica o al massimo da una élite cinematografica, Raffaella diventava inconsapevolmente simbolo di un’intera comunità. È un’epoca indimenticabile, ricordi di una tv che non c’è più, Canzonissima che trasforma la soubrette del bianco e nero in ultra diva che già scoppia di colore. La Carrà diventa mito e il pubblico omosessuale se ne innamora fino a idolatrarla e a considerala punto di riferimento: «Ricevevo tante lettere di ragazzi gay. Scrivevano: “Non mi suicido solo perché ci sei tu”. Con loro diventavo io la spalla a cui appoggiarsi», rivelò la Carrà. E mancavano ancora quasi dieci anni al successo di Luca, «dalla mia finestra lo vidi insieme a un ragazzo biondo/Con chi sei adesso, Luca Luca, non si saprà mai», prima canzone a tematica gay scritta da quel genio senza limiti di Boncompagni. Avanti veloce, bruciando le tappe e precorrendo le mode.

«Sono diventata icona gay mio malgrado, non ho fatto nulla». Ma in fondo perché si diventi icone gay è un segreto che sta racchiuso in algoritmo inespugnabile. Piacciono le donne carismatiche dai look monumentali e dalle storie sentimentali che fanno sognare. Ma questo è un cliché che non basta. Forse semplicemente icona gay si nasce. E in mezzo tante gay icon vere, verosimili, presunte, autoproclamatesi tali, icone a gettone, usa e getta, icone perché – signora mia – è la moda del momento, la Carrà tale è nata. «Credo di piacere ai gay perché sono la bambola che non si sono mai potuti concedere da bambini», diceva lei. Ma non basta nemmeno questo, la verità molto più profonda. Più che una bambola, i gay, le lesbiche e i transessuali hanno visto in lei un mix capace di sparigliare i giochi: carisma, unicità, talento e coraggio. «A un amico gay, direttore di una rivista in lingua spagnola, ho chiesto: “Que te gusta de mi persona?”. Lui mi ha guardato come se fossi una torta al cioccolato: “Todo”. La verità è che morirò senza saperlo. Sulla tomba lascerò scritto: “Perché sono piaciuta tanto ai gay?».

Attorno a lei si sono ritrovati in un abbraccio collettivo nel quale sentirsi sicuri e accettati, senza pregiudizi. «Sono persone con un grande bisogno di fantasia e di sentirsi uguali, e per me sono assolutamente uguali. Non ho preconcetti di nessun tipo. Ci saranno persone più intelligenti meno intelligenti, cattive oppure invece assolutamente dolci. Io ho un feeling con loro: qualche volta nella vita si ha un feeling senza parlare e questo evidentemente è nato in maniera spontanea. Perché io non promosso nulla: sono stati loro che mi hanno scelta e di conseguenza io li rispetto prima e li amo dopo», raccontò a Paolo Bonolis, ospite di quel gioiellino de Il senso della vita.

Del resto le icone sono fatte così, agiscono più o meno pubblicamente, più o meno politicamente. Così si racconta che Wanda Osiris avesse scelto tra i suoi boys in palcoscenico diversi omosessuali solo per salvarli dal confino, mentre è certo che Moira Orfei negli anni ’70 avesse assunto nei suoi circhi diversi giovani gay discriminati o cacciati di casa dalle loro famiglie. La Carrà agì in maniera diversa, alternando azioni di supporto al movimento Lgbtq+ fatte con la riservatezza di chi non ama sbandierare la propria generosità, ad altre più eclatanti come quando nella bigotta Spagna post franchista entrò a gamba tesa sparigliando i giochi, favorendo l’emancipazione delle donne e diventando un’icona assoluta di libertà. Mentre le casalinghe impazzivano per La Hora de Raffaella, le trans e le drag queen del quartiere Chueca di Madrid, s’ispiravano ai suoi look e le sue canzoni diventavano degli inni progressisti. Lo stesso accadde in Sudamerica, dove Pedro, Luca, Fiesta furono uno schiaffo pop in faccia ai regimi e ad un certo conservatorismo.

«Raffaella no es una mujer. Es un estilo de vida», ha detto Pedro Almodovar con una sintesi efficace e indimenticabile. «Raffaella non è una donna, è uno stile di vita». E come dargli torto. Mentre il mito cresceva, la sua battaglia al fianco dei gay non è stata mai scalfita neppure dalle critiche più stereotipate che colpivano il movimento. «La lobby gay? Mai conosciuta. Le uniche lobby sono in politica e negli affari», rispose a Gramellini. E quando lui le chiese dell’esibizionismo colorato (e inoffensivo) dei Pride, la risposta fu nuovamente tranchant: «Tra loro ci sono degli esibizionisti. Anche dei ladri e dei delinquenti, se è per questo. Come tra gli etero». Touché. Raffa di lotta e di pailettes. «Tanto cazzeggio e nessun giudizio. Né pregiudizio. Ma ti pare che un transessuale con due lauree non trovi lavoro solo perché è nato in un corpo di maschio sentendosi donna?».

Ogni scusa era buona per sostenere i circoli e le realtà omosessuali, anche quando i diritti civili non erano in cima all’agenda politica, come invece accade oggi. Così, alla fine del 1999, a pochi mesi dal World Gay Pride di Roma, compra a sorpresa tutti i biglietti di un teatro off romano per assistere alla messa in scena di Fiesta, lo spettacolo che le dedicò Fabio Canino. «Arrivò con Japino, Boncompagni, Graziella Pera, che all’epoca era la sua costumista: erano in dieci ma comprò cento biglietti per supportare la compagnia e lo spettacolo, che raccontava la storia di un condominio gay», rivela Giovanni Ciacci. «Il suo fu un gesto di generosità straordinaria, come molti altri ne ha fatti nella vita alla comunità omosessuale, senza mai la necessità di sbandierali». L’azione intrisa di passione e coerenza. «Vorrei che la gente smettesse di guardarli male. Hanno diritto al rispetto e anche a un po’ di compassione, visti i problemi umani e sociali che devono affrontare», disse a Sorrisi e Canzoni, in un’intervista del 1979. «Non capisco perché molte persone che nascono con preferenze sentimentali e sessuali differenti, per quanto siano rispettose degli altri queste vengono trattate con violenza. Io ripudio e odio la violenza. Sono una donna libera e sono una donna di pace. Spero davvero che questa situazione, che già sta facendo grandi passi in avanti verso il futuro, migliori ulteriormente, così che possa raggiungersi una piena uguaglianza e una serenità stupenda», ribadì quasi trent’anni dopo, ricevendo il World Pride Award, a Madrid. Coerente sempre, come solo le icone planetarie sanno essere. E Raffaella Carrà lo è stata senza dubbio alcuno. Viva Raffa, per sempre.

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