È interessante assistere a quei rarissimi momenti in cui la nostra società “scopofiliaca” si scopre puritana e moralista. Ultimamente è accaduto con le polemiche seguite alla decisione di alcuni telegiornali di mandare in onda il drammatico video della tragedia accaduta alla funivia di Mottarone.

Scopofilia, per chi ne fosse comprensibilmente all’oscuro, è termine con cui si indica il “piacere di guardare” (dal verbo greco antico “skopéo”, vedere, e il sostantivo “filía”, amore). Originariamente questo termine veniva usato per indicare il piacere perverso che una persona prova nell’assistere alle prestazioni sessuali di altri individui (quello che i francesi chiamano “voyeurismo”), ma è evidente che nella nostra società dell’immagine ha assunto un significato più esteso.

Nell’epoca dei social network, infatti, scopofilia può essere utilizzato per descrivere il non meno perverso piacere che noi tutti proviamo nel vedere (o meglio: credere di vedere) ogni singolo istante e dettaglio della vita altrui. Che si tratti di situazioni, di stati d’animo o del corpo vero e proprio (spesso ritoccato dall’autore del post per eliminare i difetti…), il nostro tempo è quello in cui – riportando la memoria a un grande libro di Giovanni Sartori del 1998 – l’homo sapiens è retrocesso al rango di homo videns.

L’essere umano, ormai irretito nella predominante dimensione della vista – spiegava il politologo toscano – è colui che mentre guarda spegne i filtri cognitivi, nell’illusione che la ricchezza delle immagini possa compensare la povertà del pensiero. Del resto, è risaputo, pensare è molto più faticoso che vedere. Vedere produce un piacere superficiale e veloce (è il meccanismo della pornografia), mentre pensare conduce a un piacere più intenso ma difficile da raggiungere (qui si entra nel campo dell’erotismo descritto da Bataille).

All’interno della società spettacolare, ci spiegò Guy Debord già nel 1967, regna sovrano un imperativo indiscutibile: “Tutto ciò che è, appare, e tutto ciò che appare è”. Con ciò intendeva dire che si stava procedendo verso una direzione specifica, per cui a esistere sarebbe stato soltanto ciò che appare, ciò che viene veicolato da un qualche mezzo di comunicazione. Invece, se non appari non sei, non vieni riconosciuto, non hai valore. Non hai valore anche e forse soprattutto economico, perché lo sappiamo bene: qualunque immagine oggi sia veicolata attraverso un social media – anche la nostra personale – viene monetizzata se non altro attraverso il meccanismo apparentemente innocuo dei like e degli accessi, che prontamente si traducono in denaro contante (per il proprietario del network, ovviamente, quasi mai per l’utente, che tutt’al più viene ricompensato in termini di soddisfazione narcisistica).

Inutile dire che oggigiorno siamo immersi in questo tipo di società dello spettacolo, naturalmente con modalità perfino più pervasive e radicali, grazie alle nuove scoperte tecnologiche. Siamo talmente immersi da non renderci conto della totale assurdità del continuo pubblicare l’immagine del nostro viso (puntualmente abbellita dai vari filtri), oppure l’immagine delle scene quotidiane della nostra esistenza, di cui in una società sana e in un tempo normale non dovrebbe fregare nulla a nessuno.

Ecco perché fa riflettere il rarissimo episodio che sembra contrastare con questo delirio pornografico. È il caso dell’indignazione morale seguita alla pubblicazione del video in cui si vede la tragica fine dei poveretti sulla funivia. Indignazione suscitata apparentemente da un moto di rispetto per i morti, ma che in realtà è soltanto l’altra faccia della medaglia della società scopofiliaca di cui sopra. Perché mai, infatti, in una società in cui tutti si affannano a mettere in vetrina ogni dettaglio – tanto più se insignificante – della propria vita, dovrebbe scandalizzare la pubblicazione della morte? Credo per due ragioni.

La prima non nasce da oggi: l’uomo vuole rimuovere tutto ciò che gli ricorda di essere mortale ed esposto agli scherzi spesso tragici del destino. Per questo vuole la pornografia (che è vita consumata superficialmente) ed evita l’erotismo (supremo tentativo di guardare in faccia la vita, di cui la morte è parte fondante). La seconda ha a che fare col nostro tempo: se il vedere è diventato l’affare economico per eccellenza, ossia ciò per cui le persone sono disposte a spendere e investire (in termini economici ma anche di tempo), ci sarà sicuramente chi non vuole che il proprio “investimento” sia ripagato con immagini di dolore e morte. Ovviamente non si può dire in questi termini, e allora si ricorre al moralismo, quello di chi certe cose ama vederle (è una delle perversioni dell’umano) ma purché possa illudersi di farlo di nascosto.

Se quel video finisce al telegiornale, lo possono vedere tutti, e allora dove sta il mio “guadagno” in termini di godimento pornografico? Se devo vedere la morte – possibilmente degli estranei – che almeno ciò avvenga dal buco della serratura! È un meccanismo complesso, impossibile da spiegare nello spazio breve di un post. Molto più semplice è l’altro meccanismo, quello per cui questi incidenti (come il crollo dei ponti o le tragedie sul lavoro) si moltiplicano in un’epoca che sacrifica tutto al dio Profitto, per cui se si può risparmiare sulla manutenzione e sulla sicurezza, ben venga. Ma è un meccanismo che non si traduce in video virali, quindi non frega a nessuno. Specie ai moralisti da social network.

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