Il “Sistema Trani” si era trasferito a Taranto, arrivando a toccare diversi procedimenti che riguardavano l’Ilva. Il “Sistema Trani”, in realtà, era il “Sistema Capristo”: una ragnatela di rapporti che teneva insieme magistrati, avvocati, consulenti e arrivava a lambire politici di primissimo piano per aprire “indagini illegittime” o ‘ammorbidire’ i procedimenti in cambio di favori e tentativi di nomina. Una “svendita di funzioni” che vede al centro – stando alla ricostruzione dalla procura di Potenza, avallata dal gip del tribunale lucano Antonello Amodeo – l’ex procuratore di Trani e di Taranto, Carlo Maria Capristo, l’ex legale di Eni, Piero Amara, al centro di numerose inchieste compresa quella sulla presunta “loggia Ungheria”, il poliziotto Filippo Paradiso, l’avvocato Giacomo Ragno e Nicola Nicoletti, socio di Pwc e consulente di Ilva in amministrazione straordinaria. Tra le accuse rivolte ai principali indagati – 11 in tutto – dagli uffici diretti da Francesco Curcio anche quella di avere, in cambio di favori, aggiustato (o tentato di aggiustare) procedimenti che riguardavano l’ex Ilva di Taranto, compresi i dissequestri degli altoforni dopo la morte di due operai.

Quattro arresti, undici indagati – È questo il cuore dell’inchiesta della procura di Potenza che ha portato in carcere Amara e Paradiso, già in servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi, come con Berlusconi, e al ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, allora capo di gabinetto di Matteo Salvini, e quindi finito nella segreteria di Carlo Sibilia. Arresti domiciliari invece per Ragno, già condannato a 2 anni e 8 mesi nell’indagine sul “Sistema Trani” che riguardava i pm Antonio Savasta e Michele Nardi, e per Nicoletti. Il gip ha invece disposto l’obbligo di dimora per Capristo, già arrestato a maggio 2020 nell’ambito di un’altra inchiesta e poi tornato libero mentre è a processo. Nell’indagine sono indagati anche l’ex pm di Trani Antonio Savasta, l’ex gip Michele Nardi (condannati per corruzione in atti giudiziari in un’altra inchiesta e per i quali il gip ha respinto la misura cautelare chiesta dalla procura), l’imprenditore Flavio D’Introno, il carabiniere Martino Marancia, il consulente Massimiliano Soave e Franco Balducci. A vario titolo sono contestati corruzione in atti giudiziari, corruzione nell’esercizio delle funzioni, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, concussione, abuso d’ufficio e favoreggiamento.

“Amara corrompeva, Capristo svendeva la sua funzione” – Amara, ad avviso della procura, è stato “soggetto attivo” della corruzione in atti giudiziari “sia a Trani che a Taranto”, mentre Capristo ha “venduto stabilmente” ad Amara la sua” funzione giudiziaria”. A Paradiso, invece, spettava il ruolo di “intermediario” per “conto e nell’interesse” di Amara nei confronti dell’ex procuratore. Secondo l’impostazione degli inquirenti, il presunto “asservimento” di Capristo derivava dal tentativo di ottenere favori attraverso i due, che si producevano in una “incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta” in suo favore su “membri del Csm (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/o su soggetti ritenuti in grado d’influire su questi ultimi” quando l’ex magistrato era interessato a incarichi direttivi vacanti. Fra questi, ci sarebbero stati la procura generale di Firenze e quella di Taranto. In cambio, sempre secondo l’accusa, Capristo da un lato cercava di “accreditare” Amara come legale di Eni e dall’altro ammorbidiva le posizioni della procura nei procedimenti in cui Amara era coinvolto come consulente.

Cosa faceva l’ex procuratore – Secondo gli inquirenti, tra le tante accuse, Capristo “disponeva lo svolgimento d’indagini, anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime (fra cui escussioni ed acquisizione tabulati)” sulla base di un esposto anonimo fatto consegnare Amara. A insospettire gli inquirenti sono state le anomale modalità di ricezione di un esposto, “recapitato a mano, pur essendo anomalo, direttamente presso l’ufficio ricezione atti” della procura di Trani ”senza che risultasse chi lo avesse consegnato e poi regolarmente protocollato, assegnato ed iscritto”. Nonostante la “natura anonima dell’esposto”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, Capristo sollecitava i magistrati co-delegati “in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi” che “risultavano funzionali agli interessi di Piero Amara che aveva inviato gli esposti e che aveva necessità di rafforzare e ‘vestire’ la tesi del complotto contro l’ad di Eni De Scalzi”. Capristo, inoltre, “accettava una interlocuzione assolutamente impropria ed anomala” con Amara, sulla base degli esposti anonimi, sebbene il nome dell’avvocato siciliano non risultasse in alcun modo né era “nominato formalmente da un soggetto processuale legittimato”. Ne consegue, secondo la procura di Potenza e secondo la Guardia di finanza, che la “condotta compiacente” consentiva ad Amara di “proporsi e mettersi in luce presso l’Eni per un verso come punto di riferimento e tramite verso l’autorità giudiziaria in quella specifica vicenda e, per altro verso, come legale meritevole di nuovi ed ulteriori ben remunerati incarichi”. Il ‘sistema’ funzionava così, secondo la procura: favori in cambio di “sostegno lobbistico” alle sue “aspirazioni di carriera” e “benefici materiali”. Capristo e Amara, scrive il gip, hanno avuto un’indole” volta al perseguimento di fini economici e di potere, sia propri che del gruppo di appartenenza, con abile capacità organizzativa e manipolativa”.

Il “trait-union” del socio di Pwc e l’alter ego di Capristo – Nicoletti, socio di Pwc e consulente esterno di Ilva in As, secondo l’accusa, da un lato “aveva sostenuto l’attività di ‘sponsorizzazione'” dell’ex procuratore e dall’altra “vedeva riconosciuto dalla gestione della procura di Taranto da parte di Capristo una particolare e favorevole attenzione alle esigenze di Ilva in As” che, a sua volta, “si tramutava anche in ulteriore beneficio, questo di carattere personale” perché “in quanto consulente degli amministratori straordinari e in quanto trait-union (unitamente ad Amara, che dallo stesso Nicoletti era stato proposto alla Amministrazione Straordinaria quale legale da assoldare in quanto in ottimi rapporti con Capristo) fra l’Amministrazione Straordinaria e la procura di Taranto, si accreditava come soggetto indispensabile per gestire i complessi rapporti con la autorità giudiziaria di Taranto e dunque acquisiva ulteriori titoli per rinsaldare la sua ascesa professionale nelle acciaierie tarantine”. Nicoletti avrebbe, stando all’accusa, “a fronte dei favori resi dal Capristo” avrebbe “condizionato” i dirigenti Ilva sottoposti a procedimenti giudiziari “affinché conferissero una serie di incarichi difensivi” all’avvocato Ragno, definito “alter ego” dell’ex procuratore di Taranto in virtù di uno “stretto legame” tra i due. Nel dettaglio vengono contestati 4 mandati difensivi che avrebbero fruttato parcelle per 273mila euro, ora sequestrati.

Quel patteggiamento respinto – L’inchiesta era stata in parte anticipata lo scorso giugno da Ilfattoquotidiano.it in una lunga ricostruzione di quanto avvenuto negli scorsi anni nell’ambito di un procedimento sull’ex Ilva. L’indagine ruota intorno alla scelta di Amara come consulente della struttura legale di Ilva in As e partecipa alla cosiddetta “trattativa” con la procura per raggiungere quel patteggiamento che qualche anno prima, il pool di magistrati guidati allora da Franco Sebastio, aveva respinto. Tra le accuse riportate nel capo d’imputazione formulato dalla procura c’è anche quella infatti la staff legale dell’Ilva alza la posta offrendo il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca (invece dei 9 proposti nella prima istanza) come profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Ma i giudici della Corte d’assise ritennero “le pene concordate con i rappresentati della pubblica accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”. Le contestazioni a Capristo riguardano anche il caso del dissequestro lampo dell’altoforno dopo la morte dell’operaio Giacomo Campo e la sua posizione sullo spegnimento di un altro altoforno nel periodo della ‘guerra’ con ArcelorMittal che meditava la fuga.

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