“Per gli amici, i favori. Per gli altri, la legge”. È questa secondo la procura di Potenza guidata da Francesco Curcio la modalità con quale Carlo Maria Capristo, ex procuratore capo di Trani e di Taranto, gestiva la sua funzione di magistrato inquirente. Una modalità “orientata nel senso tipicamente corruttivo-collusivo” che Capristo avrebbe scelto per favorire i suoi fedelissimi e fare carriera. “Un asservimento durevole della funzione giudiziaria”, ad avviso del gip Antonello Amodeoche ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per il magistrato e altre 4 persone tra cui l’avvocato Piero Amara – per ricevere in cambio “sia un sostegno lobbistico alle sue aspirazioni di carriera che benefici materiali”.

Uno scambio di favori, secondo quanto confermato dall’ultima inchiesta, che ha come interlocutore privilegiato l’avvocato Amara, il legale siciliano già arrestato nell’ambito dei falsi dossier Eni e più recentemente protagonista delle dichiarazioni sulla presunta “loggia Ungheria”. Il rapporto tra Amara e Capristo, infatti, nasce proprio quando uno dei falsi dossier contro l’ad di Eni Claudio De Scalzi creati da Amara viene inviato a Trani e che Capristo avrebbe poi inviato a Siracusa, all’ex pm Giancarlo Longo, uno dei magistrati in accordo con lo stesso Amara. Un’azione che avrebbe garantito a Capristo l’aiuto di Amara e del suo entourage per ottenere i voti del Csm per diventare nel 2016 il nuovo procuratore di Taranto. E nel capoluogo ionico, quel rapporto, sarebbe proseguito insinuandosi nelle grandi vicende giudiziarie che la procura ionica conduce contro l’ex Ilva. Nell’inchiesta compaiono diverse vicende già raccontate da ilfattoquotidiano.it: l’ingresso di Amara nel collegio difensivo dell’Ilva in As, il tentativo di patteggiamento per la società partorito da Amara e Capristo che guidava il pool di inquirenti (tutti estranei all’inchiesta), il dissequestro lampo di un impianto nel quale solo 24 ore prima era stato ucciso l’operaio Giacomo Campo.

Ma nelle nuove carte emergono anche le presunte pressioni di Capristo per dissequestrare l’Afo2 nel quale era morto nel 2015 l’operaio Alessandro Morricella. L’impianto era stato sequestrato nel 2015 e poi un decreto del governo di Matteo Renzi ne aveva concesso la facoltà d’uso. Quel decreto, però, fu dichiarato incostituzionale e divenne il terreno di scontro tra ArcelorMittal, nel frattempo diventata nuovi gestori dell’acciaieria, e i commissari di Ilva in As nominati dal governo. La multinazionale dell’acciaio, infatti, aveva minacciato di rescindere il contratto d’affitto e acquisto e in quel giugno 2019, secondo quanto si legge nei documenti, anche Capristo, sembrò schierarsi a favore dell’acciaieria. È stata Antonella De Luca, ex pubblico ministero di Taranto e da poco trasferita in Toscana, ad aver confermato al procuratore Curcio le pressioni di Capristo affinché l’impianto venisse dissequestrato. “Si doveva a mio avviso dare ordine di esecuzione dell’originario sequestro dell’Altoforno”, ha sostenuto De Luca precisando che “su questo argomento Capristo era in disaccordo poiché a suo avviso non si poteva spegnere lo stesso con conseguenti danni occupazionali”. De Luca e il procuratore aggiunto Maurizio Carbone insistono con Capristo affinché l’impianto in cui è morto Morricella venga fermato: “Capristo – ha ribadito – mi disse che non voleva sentire parlare di spegnimento del forno”.

Ma non è tutto. Le pressioni di Capristo sarebbero infatti andate ben oltre. Oltre a sollecitare la concessione della facoltà d’uso per l’Afo2, infatti, avrebbe concordato con il consulente dell’Ilva Nicola Nicoletti di esercitare pressioni sull’ufficio legale dell’Ilva affinché un operaio “fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda e della dirigenza”. Insomma un operaio avrebbe dovuto prendersi la colpa della morte del 35enne investito da una fiammata per salvare i suoi capi e l’azienda. Un punto che stava particolarmente a cuore a Capristo tanto da spingerlo a chiedere alla pm De Luca di valutare favorevolmente la posizione dell’allora direttore di fabbrica Ruggero Cola, che era difeso dal suo amico Giacomo Ragno, legale coinvolto nell’inchiesta sul “Sistema Trani” e condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi.

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