Quattordici anni di detenzione e torture a Guantanamo senza accuse né prove di colpevolezza. La liberazione, il processo e il riscatto nel 2016 grazie a un’avvocatessa coraggiosa e una crisi di coscienza di un colonnello marine. La vicenda del mauritano Mohamedou Ould Salahi è una delle troppe che hanno imbarazzato la Storia statunitense post 9/11, quando il sospetto di terrorismo islamico si traduceva nell’ossessione a trovare il capro espiatorio. Importante era farne un film, possibilmente solido e fedele, e mostrarlo al grande pubblico. Così è avvenuto grazie alla 71ma Berlinale che, benché online, ha inserito The Mauritanian nella sezione Berlinale Special Gala in attesa della programmazione su Prime Video prossimamente, a premessa delle nomination ai prossimi Oscar.

Perché il legal biopic drama diretto dallo scozzese Kevin Macdonald – a sua volta premiato con l’Academy Award nel 2000 per il doc One Day In September – è un’opera di rigore a largo respiro mediatico avvalorata da due interpretazioni imponenti: da una parte la sempre magistrale Jodie Foster (già premiata con il Golden Globe da protagonista drammatica per questo ruolo), dall’altra l’intenso franco-algerino Tahar Rahim al meglio del suo repertorio dopo l’exploit con Un prophète (Un profeta, 2009) di Jacques Audiard. Entrambi, per la verità, sembrano frutto di una scelta precisa legata alle rispettive carriere: Foster quale indimenticabile destabilizzatrice da carcere, cacciatrice di menti disturbate (Il silenzio degli innocenti), Rahim quale interprete emblematico del prigioniero ingiustamente punito e dalla detenzione per sempre segnato (il citato, Un prophète). Al loro fianco, non trascurabile, è anche Benedict Cumberbatch nei panni del colonnello marine incaricato a insabbiare “il tutto”.

Di co-produzione anglo-americana, The Mauritanian è un testo di lampante denuncia sulla violazione dei diritti umani nell’America di H.W. Bush (in termini specifici delle Convenzioni di Ginevra) ma anche sulla pratica di insabbiamento e manipolazione della verità che diviene narrazione perfetta alla messa in scena del racconto cinematografico, per definizione ambivalente tra vero e falso, realtà e finzione. Senza la pretesa di far da apripista su tematiche già percorse, il film offre puntualità dei fatti e aderenza ai sentimenti perché ispirati dal memoriale bestseller scritto dal protagonista nel 2015, Guantanamo Diary. Salahi, tuttora vivente, attivista e ampliamente mostrato sul finale con filmati e immagini di repertorio, funge da garante del suo dramma diventato film.

Per questo, forse, si può obiettare al valore del testo accusandolo di eccessiva “sorveglianza” tradotta in convenzionalità e mancanza di libertà espressiva, ma è pur vero che difficilmente l’immensa ingiustizia subita dal mauritano poteva aspirare al grande pubblico in altre forme, a meno che non si adotti il linguaggio documentario. È un limite “genetico” al cinema di denuncia di abuso di potere su scala storico-politica costruito sulla narrativa tradizionale anglo-americana, la cui valutazione tende a sottostare a criteri diversi dalla materia squisitamente artistica. Ciò detto, la tensione, l’atmosfera di cospirazione, la sensazione di fragilità del singolo davanti all’istituzione criminale e criminalizzante, la ferocia delle torture disumanizzanti e l’interrogazione della coscienza individuale così come nazionale sono saldamente sceneggiate in questo film che, attraverso il racconto di un recentissimo passato (e presente, la questione Guantanamo è ancora hot issue per le faccende interne Usa) mette in guardia sui comportamenti futuri.

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