Ciao, mi chiamo Giacomo Baldin e ho 29 anni. Fin da bambino ho sognato l’Africa, finché all’età di 20 anni sono partito alla ricerca di questa terra tanto diversa dalla nostra cultura occidentale, l’Etiopia. Adesso vivo qui stabilmente, faccio la guida turistica e collaboro con una ONG italiana che si occupa di infanzia. Vivo una vita completamente fatta di sorprese quotidiane, lontana dallo stress e dalla routine a cui ero abituato e questo mi permette di godere dello stile di vita nelle campagne etiopiche. Da qui l’ispirazione per questi miei scritti.

di Giacomo Baldin

Sopravvivere alla stagione delle piogge ad Addis Abeba per quanto mi riguarda è una dimostrazione di forza; se superi questo periodo infatti significa che sei mentalmente un vincente, perché conosci la determinazione che serve per non abbattersi nei momenti difficili della tua esistenza. Hai sicuramente imparato la pazienza, “la virtù dei più forti”, perché sai cercare e trovare momenti per fare due risate in un ambiente che altrimenti porterebbe ad uno stato di depressione irreversibile. Sai essere ironico di fronte alla tragedia di un clima avverso a cui non ci si può ribellare; un clima talmente ostile che gli arbegnoch, i partigiani etiopi durante l’occupazione italiana, sfruttavano per sferrare i loro attacchi all’invasore.

Quale ferenji, ovvero “straniero” in amarico, ha voglia di uscire di casa, fucile alla mano, per combattere sotto piogge torrenziali? Se salvi la pelle in combattimento ritorni a casa come minimo con una bella broncopolmonite. Non il massimo della battaglia. Molto meglio restare a casa, in quelle belle case del quartiere italiano di Piassa o di Kasanchis (o meglio dire “Casa Incis” dove Incis sta per “Istituto Nazionale Case Impiegati Statali) costruite con il caminetto a legna per scaldarsi, uniche ad averlo in quell’epoca in Addis Abeba.

Non è un caso che ancora oggi, quasi tutti gli stranieri che vivono o lavorano nella capitale abissina scelgono questo periodo per tornare nei loro paesi in vacanza, lì dove il sole con il suo calore li protegge da pericolose alterazioni psicologiche. Addis è così, tanto la amo per nove o dieci mesi, tanto la detesto per “appena” sessanta giorni. Una cosa che a molti piace, etiopi e ferenji compresi, è il rumore della pioggia che sbatte ininterrottamente sui tetti delle case. Le case comuni infatti, siano baracche o piccole villette, sono ricoperte dal korkorò, ovvero la lamiera ondulata che si compra qui che funge da tetto per la sua impermeabilità. Il rumore della pioggia che sbatte sulla lamiera, questo suono tamburellante ma apparentemente lontano che ti accompagna durante la notte è una dolce ninnananna che ti fa dormire bene, ricordandoti che fuori è freddo e piove ma tu sei al calduccio sotto le coperte.

Il korkorò è quello che sta prendendo piede da ormai decenni per la costruzione dei tetti anche nelle campagne etiopiche; infatti, molti contadini hanno smesso di costruire capanne, la paglia che si usa per il tetto va cambiata ogni due o tre stagioni delle piogge, e anche quella ha un costo perché significa sottrarla agli animali ma anche perché ne serve molta per fare uno strato impermeabile. Oltretutto la paglia se non è ben disposta sul tetto, o se con le piogge e il vento si sposta, anche di poco, può facilmente far filtrare l’acqua e quindi la pioggia.

La lamiera, invece, da questo punto di vista assicura più permeabilità e il suo costo è considerato ormai anche dai contadini un buon investimento; “dura per sempre” pensano. Certo, se la casa non è alta fa molto caldo al suo interno durante la stagione secca, ma gli etiopi in genere tollerano meglio il caldo del freddo. Per questo motivo la tendenza oggi, anche fuori Addis Abeba è di costruire il tetto della propria abitazione con la lamiera, posta sopra una struttura che una volta finita può apparire da lontano simile ad una normale casa in muratura ma che in realtà è costruita su pali di eucalipto su cui si “schiaffeggia” la cika, il fango.

Sull’eucalipto, in bene e in male, avrei molto da dire; esso infatti è iper-coltivato e protetto in foreste conservate appositamente, perché la sua vendita rappresenta un buon business per i contadini. Questa pianta, infatti, ha la particolarità di crescere dritta per oltre dieci metri, e quindi i suoi tronchi non avendo curve sono ideali per l’edilizia locale. Purtroppo però, nel corso dei decenni la sua ingorda sete di acqua ha iniziato a seccare i terreni vicini e a mettere i bastoni fra le ruote all’agricoltura, prima fonte di vita delle genti. Se penso che l’eucalipto ha una storia relativamente breve in Etiopia, circa 150 anni, e già ci sono questi problemi, la cosa non mi fa ben sperare… altre carestie perseguiteranno l’Etiopia? “Egziabher yawkal”, “il Signore (solo) lo sa”, come ripetono per ogni cosa qua.

Tornando ai nostri tetti in lamiera ricordo che quando costruii la mia casa nella cittadina di Ziway insieme ai miei operai, mi arrabbiai molto quando andai a cercare i chiodi a fungo perché erano finiti. Questi chiodi sono fondamentali per attaccare la lamiera alla base in legno del tetto, perché hanno una specie di “rondellina” saldata nella parte superiore del chiodo che, una volta impiantato, rimane esterna alla lamiera e fa sì che la pioggia non approfitti del foro del chiodo per entrarci. Quando tornai indietro e amareggiato lo dissi ai miei operai, questi risero un sacco dicendomi di non preoccupare. “Compra un paio di casse di birra e cocacole per stasera che ci pensiamo noi” mi dissero.

All’inizio non capii nulla, anzi la presi male: “Possibile che non prendano seriamente mai niente qua?” Invece non bisogna dare all’ira legna da ardere in Etiopia, bisogna sempre cercare di riflettere sulle parole; nulla infatti viene detto a caso, anche se al momento viene fatto sembrare ironico. Dopo la bevuta, Mammush, il capo dei miei operai, mi mostrò i tappi delle bottiglie avanzati e mi disse: “Non ti preoccupare, usiamo questi bucandoli con i chiodi normali”. Una piccola sbronza può servire a costruire un tetto qui in Etiopia. Fu così che il tetto della mia casetta visto dall’alto si colorò di giallo-fanta, rosso-cocacola arancione-mirinda (l’aranciata locale), e blu-pepsi. Fare di quello che si ha virtù è una dote che impari da piccolino, quando non hai tutti i mezzi giusti per fare quello che vorresti.

Tornando alle mie odiate piogge, una delle tante cose che detesto è il fango: infatti ad Addis Abeba durante questa stagione si formano dei torrenti in ogni stradina secondaria, e anche andare al suq, il botteghino dove trovi tutto che si chiama come il mercato arabo, significa bagnarsi i piedi e prendere freddo. Per questo motivo ho imparato, non senza l’esperienza di numerosi raffreddori presi, ad andarci in infradito senza calzini; tanto vale che mi bagni i piedi e appena rientro me li asciugo, no? Altrimenti una volta che mi bagno i calzini sono spacciato; sento freddo e poco dopo inizio ad avvertire i brividi. E poi per fare due metri fuori casa quando torno devo sempre cambiarmi i calzini?

Le piogge, inoltre, aumentano il traffico perché le macchine percorrono la città più lentamente, c’è più prudenza in generale, ma nonostante ciò aumentano i piccoli tamponamenti. Si va piano ma di fretta, si vuole sempre rubare la precedenza a tutti. Questo perché rimanere immersi nel traffico ad Addis Abeba significa per molti, me compreso, rovinarsi l’umore. È davvero pesante farsi tre ore in mezzo ad una fiumana di veicoli di ogni tipo per fare quindici chilometri, se non lo provi non lo puoi capire. È un po’ come il casello di Mestre a Ferragosto, ma ogni giorno e per almeno due mesi. Il concetto di pazienza che mi ha insegnato ad avere mia nonna Lina, santa donna, non credo fosse stato concepito per chi vivesse ad Addis Abeba nel 2020.

Inoltre, credo anche per questo motivo, cioè per rompere la noia dell’attesa, noto che è aumentato l’uso dei cellulari durante la guida. È un pericolo da non sottovalutare questo, in una città dove i semafori ci sono ma se non c’è il vigile puoi fare come vuoi, dove hai la precedenza solo in teoria ma di fatto passa chi arriva prima, dove i pedoni attraversano in un qualsiasi momento e in qualsiasi strada senza guardare (tanto guardano gli altri, no?). In ogni modo, anche qua, se guidare distratti con il telefono in mano aumenterà in maniera esponenziale lo vedremo. Egziabher yawqal.

Direi che mi manca solo un’ultima annotazione negativa sulla kremt, la stagione delle piogge: lavare e asciugare i vestiti. Senza le piogge infatti, nella mia amata stagione secca, il sabato o la domenica, a seconda della stanchezza che ho più o meno accumulato il giorno prima, mi sveglio presto e lavo a mano i vestiti sporchi. Lavare i vestiti a mano è una delle cose che più amo qui, che non cambierei mai per niente al mondo; il primo sole in Etiopia per me è un eccitante naturale per mettermi in movimento e darmi da fare. In particolare lavare i vestiti è sì una cosa da fare perché serve, ma è soprattutto la sensazione della pelle che baciata dal sole inizia a pizzicarmi dolcemente e piacermi un sacco. E poi è un sole piacevole che abbronza, bastano dieci minuti e compaiono i primi puntini rossi che si trasformano presto in una tintarella veramente invidiabile. Quando si dice “due piccioni con una fava”. Questo sole poi ripaga il tuo sudore, senti la soddisfazione del tuo lavoro già dopo venti minuti quando è ormai tutto asciutto.

Spesso provare piacere, o per lo meno serenità nel compiere i lavori quotidiani nell’ambito familiare, è una sensazione che nel mondo occidentale abbiamo perso, ci sono le lavatrici e più in generale la tecnologia che ci hanno rubato certe emozioni e se le centrifugano per loro. Tuttavia, tutte queste belle sensazioni abbandonano la mia mente con le piogge. È inutile cercare il sole per lavare i vestiti, non c’è, punto. Allora anche a me tocca usare la vecchia lavatrice della mia padrona di casa; è un pezzo di antiquariato, ma a 30 gradi il suo lavoro lo fa ancora. Il vero problema è che i vestiti non si asciugano mai, durante il giorno io non ci sono e ci piove sopra. Alla fine, quando perdo la speranza, devo appenderli dentro nella mia piccola camera dove ci vuole una settimana perché si asciughino.

Ma è normale vivere con “tende” di vestiti in casa? È divertente giocare al limbo con la biancheria appesa per arrivare all’armadio? A motivo di tutto ciò il mio tempo la sera lo passo in cucina leggendo un libro. La cucina è riscaldata dal fornelletto elettrico con cui cuciniamo io e gli altri, e anche dalle kesel, il carbone vegetale che usiamo per farci il caffè con la jebena, la bellissima e sinuosa moka locale in terracotta. Oh amato settembre, primo mese dell’anno in Etiopia, vieni presto da me!

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