Quando ho letto della ipotesi fatta dai magistrati di Verbania sul disastro della funivia del Mottarone, e cioè che i freni di sicurezza fossero stati intenzionalmente messi fuori uso per eludere una avaria che avrebbe imposto lo stop dell’impianto, ho pensato a Vito Scafidi.

Era il 22 novembre del 2008 quando in una classe del Liceo Darwin di Rivoli crollava il controsoffitto di una classe: Vito aveva 17 anni. Durante quella terribile giornata tutte le persone che intervennero per esprimere cordoglio, persone che ricoprivano ruoli istituzionali anche nazionali, adoperarono due parole: “tragica fatalità”. Tutte lo fecero. Il concetto di “tragica fatalità” serve ad allontanare l’ombra angosciante delle responsabilità, “tragica fatalità” come se Vito fosse stato colpito da un fulmine mentre camminava in un prato durante un temporale estivo.

La famiglia di Vito, la mamma in particolare, Cinzia, si ribellò subito a quella versione dei fatti, accompagnò con tenacia le fasi del processo, lungo e complicato, e alla fine la verità venne cristallizzata dalla Cassazione. Nessuna tragica fatalità, ma umanissima e criminale irresponsabilità: molti anni prima chi aveva realizzato alcuni lavori di ammodernamento dell’impianto di riscaldamento della scuola, anziché smaltire correttamente le macerie (molto pesanti!), aveva pensato bene di nasconderle nella controsoffittatura della classe. Situazione resa ancora più pericolosa e definitiva dalla chiusura delle botole di ispezione nel controsoffitto: vennero inchiodate.

Come accerteranno le perizie, Vito morì infatti per essere stato colpito da un pesante tubo di ghisa. Il Parlamento nella passata legislatura ha istituito con legge la Giornata nazionale della sicurezza nelle scuole proprio il 22 novembre.

La memoria di questi fatti, che a metterli in fila si arriverebbe sulla Luna, pare non bastare mai a far cambiare atteggiamento a chi ha responsabilità in materia di sicurezza e prevenzione. L’azione penale nemmeno e le condanne, quando arrivano, non restituiscono le vite spezzate da quella che spesso in linguaggio giuridico viene poi definita “negligenza, imperizia, imprudenza”, colpa grave insomma, una condotta criminale che ha a che fare con l’egoismo e con l’avidità.

Le leggi sono importanti e di leggi se ne sono fatte in Italia, ma le leggi evidentemente non bastano, aveva ragione Norberto Bobbio a dire che una democrazia vive tanto di buone leggi quanto di buoni costumi, e i costumi hanno a che fare con la cultura di un popolo. La cultura è materia magmatica, ha a sua volta a che fare con il modo con il quale si sta al mondo ed è il prodotto collettivo e poi individuale di una miriade di fattori. Tra questi, uno: l’importanza che si assegna alla responsabilità verso gli altri, anche quando gli altri non appartengono alla propria schiera famigliare o agli affetti più stretti.

Detto altrimenti: l’importanza che si assegna alla responsabilità pubblica, verso la collettività, verso chi nemmeno conosco, verso chi non mi deve niente, verso chi verrà quando io sarò già morto e sepolto. Quando appassisce questa forma di responsabilità, perché l’unica responsabilità avvertita è quella nei confronti del proprio gruppo, del proprio clan, allora non c’è scampo per la vita dei malcapitati, non c’è scampo per la democrazia. Non c’è pietà per i bambini morti che rotolano nella sabbia portati dalle onde, non c’è liberazione da mafiosi e corrotti, che del “familismo amorale” e feroce sono campioni impareggiabili.

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