Il giorno dopo l’anniversario della strage di Capaci, comincia a Palermo la requisitoria del processo d’Appello sulla cosidetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Davanti alla corte d’Assise d’Appello presieduta da Angelo Pellino, i sostituti procuratori generali Carlo Barbiera e Giuseppe Fici hanno iniziato a passare in rassegna le accuse. Presente per la prima volta in aula l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, che per gran parte del processo di primo grado stava scontando una condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento alla mafia. Lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi in primo grado è stato condannato a 12 anni per minaccia a Corpo politico dello Stato. Stessa condanna per gli alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e per l’ex medico di Totò Riina, Nino Cinà. L’ex capitano dell’Arma Giuseppe De Donno, invece, è stato condannato a otto anni, mentre 26 anni sono stati inflitti al boss Leoluca Bagarella. Per il pentito Giovanni Brusca è stata decretata la prescrizione. La Corte d’Assise d’appello ha, invece, dichiarato prescritto il reato di calunnia contestato a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, che in primo grado aveva avuto 8 anni. Secondo i giudici il reato si sarebbe prescritto il 2 aprile 2018, prima dunque della sentenza di primo grado.

L’udienza di oggi si è aperta con Fici che ha chiesto di tenere le udienze in un’aula più grande. “L’accumulo di anidride carbonica e di aria viziata è molto pericoloso, come dicono anche gli esperti. Chiedo che la prossima udienza venga fatta in un’aula diversa, più grande, dove si possano rispettare meglio le distanze sociali. Non vorrei che dopo un anno ci confondessimo proprio all’ultimo”, ha detto il sostituto pg. “In questa aula ci sono 40 persone cioè il limite previsto dalle norme, ma in futuro ci trasferiremo in aula bunker Pagliarelli“, ha spiegato il presidente Pellino. Quindi l’accusa ha iniziato la sua requisitoria. “Da ciò che è emerso nel corso del lungo dibattimento possiamo ricavare una certezza: che negli anni un cui si sono verificati i fatti nella risposta al crimine organizzato da parte degli organi preposti qualcosa non ha funzionato per come avrebbe dovuto funzionare. Ci si riferisce, è bene essere espliciti, a comportamenti opachi e anche delittuosi, è bene dirlo, da parte di appartenenti allo Stato di soggetti alcuni dei quali sono rimasti nell’ombra”, è stato l’incipit di Fici. “C’è qualcuno in quest’aula che, dopo avere letto e sentito le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, gli atti su via D’Amelio, dubiti dell’esistenza di soggetti che hanno agito nell’ombra? Nessuno, riteniamo noi, dubita dell’esistenza di menti raffinatissime, di pupari che hanno agito nell’ombra con evidenti gravi condotte che appaiono non comprensibili e certamente non giustificabili”, ha continuato: “Qui siamo di fronte a un sistema per cui bisogna credere per atto di fede. Se ci venisse spiegato il perché del più grande depistaggio della storia o magari della restituzione dei cellulari a Giovanni Napoli (uno dei fedelissimi del boss Bernardo Provenzano finito al centro di un complesso giallo sul sequestro dei suoi cellulari e dei pc), saremmo in grado di valutare e magari avviare una riconciliazione con chi invece chiede ancora oggi giustizia e verità. Invece, si preferisce tacere o dichiarare il falso piuttosto che raccontare la verità“.

Secondo Fici c’è chi “agito al di fuori degli schemi ritardando e distruggendo le prove, falsificando le prove, favorendo e depistando. Sono decine gli inviti a tentare di fare chiarezza, basta ricordare l’intervista fatta ieri dal vicequestore aggiunto Manfredi Borsellino, figlio del giudice Paolo Borsellino”. Il pg ha spiegato che “in un processo penale sono importanti i fatti provati e non le suggestioni e, tuttavia, è molto difficile restare del tutto insensibili a ciò che in questa terra si sa da decenni. Tutti lo sanno, vox populi vox dei, espressione medievale che non si addice ai crismi del giusto processo, posto che le opinioni e i giudizi del popolo non possono essere ritenuti, in quanto tali, giusti e veri. E, tuttavia, come non tornare a quello che gridava con toni disperati una moltitudine di cittadini ai funerali di Falcone, Borsellino?. Come non ricordare la rabbia esasperata dei colleghi degli agenti di scorta uccisi nelle stragi di Capaci e in via d’Amelio? – prosegue il magistrato – Avevano intuito qualcosa evidentemente e avevano persino aggredito il Capo della polizia Parisi, rischiando che la rabbia travolgesse anche l’allora Capo dello Stato Scalfaro. Noi non ripeteremo oggi frasi come ‘Fuori la mafia dallo Statò (il grido di battaglia delle Agende rosse ndr) ma possiamo dire che vicende di questo processo ci hanno fatto capire che furono fatte alcune scelte di politica criminale e alcune attività, ovvero incomprensibili omissioni, sono state guidate da logiche rimaste estranee al corretto circuito istituzionale”. E poi ha sottolineato: “E’ sufficiente ricordare che l’ex Capo dello Stato Ciampi pensava a un colpo di Stato, oppure l’ex Capo della Polizia Parisi fece uso di una segnalazione del Sisde sicuramente falsa”. Quindi ha concluso: “Chi ha agito violando le regole lo ha fatto per la salvezza di un determinato assetto di potere. Anche a costo di calunniare degli innocenti, distruggendo famiglie e seminando dolore e lo ha fatto al di fuori delle dinamiche democratiche. Noi invece vogliamo capire. Lo dobbiamo a tutti i familiari delle vittime”.

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