Arriverà con tutta probabilità al G20 di Venezia, a inizio luglio, l’accordo sulla tassazione minima per le multinazionali sbloccato dalla proposta arrivata in aprile dagli Usa di Joe Biden. Mentre in Italia si discute soprattutto della proposta di Enrico Letta sull’aumento della tassa di successione, negli ultimi giorni sono arrivate due novità: giovedì Washington ha ufficializzato quella che dovrebbe essere l’aliquota minima globale. E la cifra è più bassa di quanto inizialmente ipotizzato, il 15% sui profitti anziché il 21% che è l’attuale prelievo sui profitti societari applicato negli Usa dopo la riforma Trump (la Casa Bianca intende portarlo al 28%). Per il dipartimento guidato da Janet Yellen quel livello rappresenta però, appunto, la soglia minima, e il dibattito internazionale deve proseguire dandosi obiettivi ambiziosi per rivederla al rialzo. Certo è che di fronte alla formalizzazione arrivata da oltreoceano anche Roma, finora silente, ha dato il suo via libera: il ministro Daniele Franco ha fatto sapere di “accogliere con favore la proposta” e ha aggiunto che “in qualità di presidenza del G20, stiamo compiendo tutti gli sforzi per garantire il raggiungimento di un accordo politico alla riunione del G20 di luglio a Venezia”, mentre proseguono le discussioni tecniche presso l’Ocse

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La rivoluzione che metterebbe in crisi per sempre la corsa al ribasso di quei Paesi che attirano le imprese con un fisco più vantaggioso aveva già ottenuto l’appoggio di Germania e Francia, che ostentano ottimismo. “Sembra proprio che avremo un accordo in estate”, ha detto il ministro tedesco delle Finanze, Olaf Scholz, all’Eurogruppo informale a Lisbona. Per Scholz la proposta Usa “è davvero un grande progresso”, che spingerà anche il cammino della web tax, perché l’accordo sulla tassazione minima aiuterà “a contrastare la corsa fiscale al ribasso delle grandi piattaforme digitali”. Per il collega francese Bruno Le Maire l’aliquota minima al 15% sarebbe “un buon compromesso”. Ma i numeri non sono scritti nella pietra. “La questione chiave non è la cifra” ma avere “un accordo politico il prima possibile, vale a dire durante la riunione del G20 a Venezia”. Importante anche raggiungere sempre in quel frangente un compromesso anche “sul pilastro della tassazione digitale”.

Fanno ovviamente restano i Paesi più piccoli che hanno basato le proprie economie proprio sugli schemi di tassazione favorevoli alle multinazionali, ben sotto la soglia minima e perfettamente legali visto che non c’è una legislazione comune. L’Irlanda, ad esempio, che applica il 12,5%. Non a caso il ministro lussemburghese – in Lussemburgo fanno base Amazon ed altre grandi multinazionali – a margine dell’Eurogruppo ha frenato le aspettative rinviando a discussioni ancora da approfondire. Ma il commissario all’economia Paolo Gentiloni si è detto ottimista sull’accordo al G20.

Nel frattempo sulla web tax l’Italia, in attesa dell’accordo globale, sta andando avanti per conto proprio. A metà maggio è infatti scaduto il termine per il versamento della prima annualità dell’imposta prevista dalla legge di Bilancio 2017 del governo allora guidato proprio da Gentiloni. Sulla falsariga di quella francese, battezzata tax Gafa dalle iniziali dei big Usa (Google, Amazon, Facebook e Apple) che sono i primi a doverla pagare, la web tax italiana si applica alle società con oltre 750 milioni di ricavi l’anno nel mondo di cui almeno 5,5 in Italia. Grava sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi ben definiti: si tratta della “veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia”, della “messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi”, e della “trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”. Il presupposto è che l’utente che usufruisce del servizio tassabile si trovi su territorio italiano. Restano escluse le transazioni nei confronti dei consumatori finali e la vendita diretta di beni e servizi attraverso il proprio sito web o nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale. Il gettito atteso era di oltre 700 milioni già nel primo anno di applicazione: non poco considerato che, stando a un’analisi di Mediobanca, oggi le filiali italiane dei grandi gruppi del web versano al fisco italiano circa 70 milioni l’anno grazie a sistemi di “ottimizzazione” con cui gli utili vengono spostati in Paesi a fiscalità agevolata.

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