A tre anni dall’inserimento nella legge di Bilancio del governo Gentiloni e dopo varie modifiche e rinvii, il 16 marzo sarebbe dovuto scattare il primo versamento della web tax italiana. Ma nel frattempo dall’altra parte dell’Oceano molto è cambiato. Il nuovo esecutivo statunitense guidato da Joe Biden anche su questo ha invertito la rotta rispetto all’amministrazione Trump, ritirando l’opposizione all’idea di introdurre regole globali sulla tassazione per i giganti del web come Google, Amazon e Facebook. Una svolta che sblocca i colloqui multilaterali in sede Ocse e ha di conseguenza convinto il governo Draghi a rinviare l’entrata in vigore della digital tax nostrana in vista di un accordo atteso per luglio, stando a quanto ha annunciato il ministro dell’Economia Daniele Franco.

La nuova segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen ha aperto alla possibilità di un’imposta globale sui gruppi del digitale che “ci consentirebbe di raccogliere una cifra equa dalle corporation mantenendo al tempo stesso la competitività dei nostri business e riducendo gli incentivi che ora le compagnie Usa hanno ad avere attività offshore”. Affermazioni salutate con soddisfazione da Bruno Le Maire, ministro delle Finanze francese, che già al forum di Davos si è detto convinto che ora “siamo sulla strada giusta”. “I giganti digitali sono stati i vincitori della crisi economica”, ha chiosato, “come si può spiegare ai settori severamente colpiti dalla crisi e che pagano le tasse dovute che questi big non devono versare lo stesso ammontare di imposte?”. La Commissione europea si è impegnata a presentare una proposta sul prelievo digitale entro giugno in vista dell’introduzione entro il gennaio 2023. Sempre in estate dovrebbe arrivare una proposta di soluzione a livello Ocse, anche se Franco dopo la prima riunione dei ministri delle Finanze del G20 sotto la presidenza italiana ha avvertito che “il diavolo sta nei dettagli e passare da un accordo sulle linee guida a uno dettagliato con i tanti aspetti piccoli e grandi da definire non sarà una passeggiata, e la soluzione non facilissima”.

Nell’attesa, comunque, il Tesoro ha comunicato che “è in corso di redazione il provvedimento che modificherà i termini per il versamento dell’imposta sui servizi digitali introdotta con la legge 30 dicembre 2018 (…) e per la presentazione della relativa dichiarazione”. La modifica fissa i nuovi termini per il versamento dell’imposta e per la presentazione della dichiarazione rispettivamente al 16 maggio e al 30 giugno “dell’anno solare successivo a quello in cui si verifica il presupposto d’imposta”. A gennaio l’Agenzia delle Entrate aveva pubblicato il modello da utilizzare per comunicare i dati relativi al pagamento dovuto per il 2020.

Sulla falsariga di quella francese, battezzata tax Gafa dalle iniziali dei big Usa (Google, Amazon, Facebook e Apple) che sono i primi a doverla pagare, la web tax italiana – se mai entrerà davvero in vigore – si applica alle società con oltre 750 milioni di ricavi l’anno nel mondo di cui almeno 5,5 in Italia. Grava sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi ben definiti: si tratta della “veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia”, della “messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi”, e della “trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”. Il presupposto è che l’utente che usufruisce del servizio tassabile si trovi su territorio italiano. Restano escluse le transazioni nei confronti dei consumatori finali e la vendita diretta di beni e servizi attraverso il proprio sito web o nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale. Il gettito atteso era di oltre 700 milioni già nel primo anno di applicazione: non poco considerato che, stando a un’analisi di Mediobanca, oggi le filiali italiane dei grandi gruppi del web versano al fisco italiano circa 70 milioni l’anno grazie a sistemi di “ottimizzazione” con cui gli utili vengono spostati in Paesi a fiscalità agevolata.

Molti osservatori hanno evidenziato però il rischio che l’imposta fosse comunque traslata sui consumatori attraverso un aumento dei prezzi. L’altro nodo, prima della svolta Usa, erano le possibili contestazioni dei partner commerciali extra Ue: il 6 gennaio l’Ufficio del Rappresentante del Commercio Usa aveva pubblicato un rapporto in base al quale la tassa avrebbe colpito 43 società di cui 27 basate negli Usa, 3 italiane e 12 di altri Paesi, dunque con un “impatto sproporzionato” sulle aziende statunitensi che la rendeva “discriminatoria” in quanto “restringe il commercio statunitense”. Poi il passaggio di consegne alla Casa Bianca ha cambiato radicalmente lo scenario. E la presidenza italiana del G20, dopo il vertice di febbraio, ha fatto sapere che il gruppo dei paesi più industrializzati “si impegnerà per raggiungere un consenso su questo tema entro la metà del 2021”.

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