Incrementare (non di molto) i voti e lasciare la politica è quanto ha fatto Pablo Iglesias. Agli occhi di un italiano sembravano una follia le sue dimissioni dalla carica di vicepresidente del Consiglio dei ministri per una candidatura al parlamento regionale di Madrid. Appare ancora più strano vederlo abbandonare la politica, a soli 42 anni, dopo un risultato elettorale al di sotto delle attese, sì, ma che comunque porta il suo partito di sinistra radicale, Unidad Podemos, da sette a dieci seggi. È strano perché al di qua delle Alpi siamo abituati a tutto, agli annunci di ritiro di Matteo Renzi, ad esempio, o agli eterni interregni dei Mastella o dei De Luca.

Esce di scena dopo un errore di calcolo: il Pablo nazionale si era convinto che solo con la sua discesa in campo poteva salvare il suo partito dalla debacle, è invece diventato il grimaldello ideale per la destra populista per scardinare il politically correct e alimentare una durissima campagna di odio. “Noi e loro” oppure “o comunismo o libertà”, una competizione dove si è segnata una linea di demarcazione netta, una barriera altissima tra schieramenti incapaci di qualsiasi dialogo. Tanto da far saltare persino dibattiti televisivi tra i candidati, una deshumanización senza precedenti che ha portato ciascun candidato a sbattere in faccia all’avversario accuse di “nazismo” o di “comunismo”.

Iglesias si è trovato nel mezzo dell’arena, nell’esatto centro di tanta disumanità, bersaglio di insulti degradanti e minacce di morte. Pensava di porre un argine alla fuga di voti, ha finito per scatenare la mobilitazione di una destra individualista e un po’ reazionaria. È l’altra faccia del populismo, quello col marchio di destra, che lo ha schiacciato, proprio lui che di populismo si è nutrito negli anni portando, alla fine di un lungo processo, la ribellione, collettivista e anti-élite, della plaza del Sol degli indignados alle stanze del potere centrale della Moncloa. È in quelle stanze che ha preso forma il suo capolavoro politico, il primo esecutivo di coalizione dalla seconda Repubblica degli anni 30, sfumata con la presa del potere di Francisco Franco.

Una decisione solenne era nell’aria, già tra le righe del discorso di chiusura della campagna si intravedevano i segnali di un testamento politico, di un viaggio che stava per arrivare al capolinea. Nella retorica delle ultime ore, sui progetti sulla futura regione di Madrid hanno prevalso i riferimenti agli inizi dell’esperienza di Podemos, richiami che suonavano come un addio al palcoscenico di uno dei personaggi più brillanti ed egocentrici del panorama politico spagnolo.

Lo scrutinio elettorale di qualche ora dopo avrebbe messo in evidenza un clamoroso paradosso, Pablo Iglesias che lascia il campo guardando i suoi ex amici di Más Madrid, nati da una costola di Podemos per distruggere la casa madre, schizzare nei seggi sottraendo consensi alla corazzata socialista.

Le consultazioni regionali hanno avuto la forza dirompente di un sisma facendo cadere la stella del populismo di sinistra e segnando la crisi del partito istituzionale del premier Pedro Sánchez che ora, non senza affanno, dovrà allontanare lo spettro delle elezioni anticipate.

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