Tra vaccini, bella stagione, distanziamenti, la curva cala. Ci avviciniamo (forse) alla fine dell’emergenza. Però da giorni penso a qualcosa che sta accadendo, e che mi preoccupa molto.

Non vorrei che qualcuno pensasse che “finito il virus, finito tutto”. Perché non sarà così.

In una recente diretta Facebook alla quale sono stato invitato dal salotto culturale di “Bolzano29” (animato dal grande promotore culturale Oliviero Ponte di Pino) i presenti si interrogavano su “Come viaggiare in modo responsabile in epoche complesse come l’attuale”. In pratica: dove andare (e come) in vacanza dopo la pandemia.

Comprendo bene la voglia che hanno (abbiamo) tutti di lasciarsi alle spalle il peso di questa prolungata situazione. Però sono rimasto molto colpito da quel tema, che vedo serpeggiare anche sui rotocalchi, o in molte trasmissioni televisive. Mi è, anzi, venuta in mente una scena, quella degli italiani nel 1944 o ’45 rinchiusi nei rifugi durante i bombardamenti bellici. Finiti i bombardamenti ecco che escono alla spicciolata, timorosi, guardando in alto, con le orecchie tese per sentire se ancora si odono i motori dei bombardieri volare sulle loro teste.

Ecco: quegli italiani, dubito che pensassero a dove andare in vacanza.

Non che all’epoca si andasse in “vacanza” come oggi, sia chiaro, ma suppongo che quelle persone, spaventate, segnate nel cuore da parenti e amici morti, scampate a una calamità che aveva stravolto le loro vite, avessero una gran voglia di non pensare, di essere leggeri, di togliersi di dosso il fardello della morte, delle privazioni, e speravano solo di sorridere, di vivere leggeri e felici, il più possibile. Proprio come noi oggi.

E tuttavia, come sappiamo, e come è forse anche ovvio che sia andata, quei milioni di italiani pensarono subito a come spalare le macerie, sgombrare le strade, ricostruire case e vite. Penso che avessero a cuore soltanto una cosa: come evitare tutto questo in futuro, come vivere in pace, come superare il dramma impostando una nuova vita. Soprattutto i migliori di loro, che infatti lavorarono alacremente a nuove forme politiche, di aggregazione, a una Costituzione, a una Repubblica che superasse la pericolosa formula monarchica (che non li aveva saputi difendere dalla follia), evitando per il futuro nuove leggi razziali, nuove invasioni, nuove carestie, tessere per comprare il pane, e via così.
Cioè rimisero le cose in fila, in ordine di importanza: prima i fondamentali, ricostruire, poi le garanzie, un sistema politico e di vita che evitasse una nuova dittatura, basato su valori di pace duratura, lavoro, benessere. Poi, (o intanto), desiderarono di andarsene al mare, o a ballare.

Anche noi, oggi, ci troviamo in quella condizione. Anche per noi il “bombardamento” ha generato danni di vario tipo. Vittime del virus, e malati con strascichi sulla salute, naturalmente, ma non solo. Siamo stati soggetti al “bombardamento” del virus, poi a quello mediatico, poi della monopolizzazione delle tematiche nel dialogo con gli altri, e poi ancora al brusco e inatteso cambiamento di vita che abbiamo dovuto eseguire, ai lockdown, alla scomparsa del consumo culturale, dello svago, dello sport, e poi all’interruzione di normali relazioni sociali. E ancora, abbiamo dovuto vivere senza vedere i nostri famigliari, oppure patire nei rapporti sentimentali in corso, e, ancor peggio, nella possibilità di incontrare nuovi amici, nuove compagne o nuovi compagni per amori che non sono nati. Per le nuove amicizie che, in questo anno, non abbiamo stretto.

Per non parlare dei danni economici, imprenditoriali, lavorativi che questo cataclisma sociale ha recato a tantissimi. Oppure per le fragilità che ha mostrato sul nostro assetto sociale, su dove viviamo, come, in che luoghi. Le città, ad esempio, si sono rivelate dei luoghi adatti a reggere il peso della minaccia? Chi è stato meglio, e chi peggio, durante questo periodo? Le psiche, gli animi, i cuori che hanno patito di più, che si sono trovati più impreparati, quali sono?

Immaginando che calamità come questa possano riverificarsi, e che anzi, la peggiore di tutte sia alle porte (gli effetti della crisi climatica sempre più grave) cosa dovremmo fare per non farci trovare impreparati?

Su tutti, pare che il rischio estremo che abbiamo corso, il più duraturo, lento ad abbandonarci, sia la paura. Paura che fino a gennaio 2020 non sapevamo bene cosa fosse, perché per molte generazioni nessuno ne aveva provata altro che l’ombra. Un po’ di paura per le crisi nucleari della Guerra Fredda, o per Chernobyl, e qualcosa anche durante il periodo delle stragi. Ma paura lieve rispetto a quella vissuta in questo anno.
Che significa vivere oggi con la paura? Quali sono gli effetti collaterali della paura? In quanti l’hanno assorbita e ora non riescono a togliersela di dosso? Come potremo ritrovare il coraggio di vivere, se non la spensieratezza?

Dunque adesso, con tutto quello che avremo da fare per ricostruire, restaurare, migliorare, cambiare le nostre vite… con tutte le riflessioni sulle nostre fragilità sistemiche, e su quelle psicologiche, che ci hanno rivelato deboli nel resistere, troppo inclini a “sbroccare” alla prima spallata della natura… a cosa pensiamo come primo argomento: alle vacanze? O, peggio, a riprendere la stessa, medesima vita di prima? Oppure dobbiamo concentrarci con spietata franchezza, con coraggio, su come “Venirne Fuori”? Abbiamo il problema del nostro portafoglio, certo, del lavoro, della scuola. Ma soprattutto, abbiamo il problema complessivo dei danni che la paura ha generato. Dunque di come ricostruire la fiducia, la speranza, l’energia. E ci serve anche una nuova rotta da seguire. Un’altra vita da vivere. Adesso.

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