“Mi ha fatto arrivare dei pensieri, li ho riassunti…”. È Massimo Giletti a parlare così mentre, la voce rotta e molto pathos, legge quello che Fabrizio Corona gli ha scritto dal reparto di psichiatria del Niguarda di Milano: “Dite a Massimo che sto male, sto molto male, e voglio che Massimo sappia che cosa mi è successo ieri. Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare. Mi hanno dato un accendino, sono controllato a vista praticamente da tre uomini della polizia penitenziaria. Mi siedo sul water e mi metto a fumare a torso nudo coi pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima, due punti di sutura, me la sono fatta pugnalandomi con una penna Bic. La guardo, fumo, la riguardo, a quel punto scatta qualcosa nel mio cervello, trovo dei leggenti (“che non so cosa siano”, aggiunge Giletti) provo a scavare nella ferita ma sono leggeri e si rompono. Sono da solo in un cesso schifoso, circondato da urla di povera gente disgraziata. Mi avvicino con la bocca alla ferita, a poco a poco spingendo sempre più di più riesco ad afferrare i punti del giorno prima con la bocca e con i denti. Li tiro, si rompono“. Non è finita: le parole che arrivano dal reparto psichiatrico dell’ospedale Niguarda di Milan dove Corona è ricoverato in attesa di essere trasferito in carcere a Opera, diventano ancora più dure: “Schizza il sangue, ovunque, sulla faccia, sulla bocca, sulle braccia, sugli occhi, sul petto. Sento uno strano sapore, mi piace, è amaro, e continuo, sono convinto che dentro la ferita ci siano i pezzi dell’ambulanza rotta. È notte e come un cannibale mordo tutto, pelle, file di punti, carne, tatuaggi, pezzettini di vetro. Sono incontenibile, non ho più freni“. Ecco che il racconto di Corona arriva al momento in cui cinque infermieri aprono la porta e vedono “un uomo di 47 anni seduto sul cesso che si mangia il suo braccio, c’è chi urla, chi piange, chi mi abbraccia, io sono impassibile, guardo solo il vuoto, sono uno psicopatico in un ospedale psichiatrico“. Poi la conclusione: “Massimo devi sapere, quando il giorno della revoca (della detenzione domiciliare, ndr) mi sono tagliato una lama affilata il braccio sinistro maciullandomi, non ho provato dolore, nemmeno quando con un pugno ho rotto il vetro dell’ambulanza, io non avevo dolore, non avevo paura e non mi interessava il rischio della morte. Sono pronto a morire per i miei diritti. Nulla, Massimo lo deve sapere, era premeditato“.

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