Un altro colpo all’ergastolo ostativo, un’altra picconata al carcere inventato per i boss delle stragi. È quello che potrebbe arrivare martedì dalla corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla possibilità di chiedere la liberazione condizionale anche per i condannati all’ergastolo ostativo. È la cosiddetta “libertà vigilata” e può essere chiesta da tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere. Tutti tranne appunto quelli all’ergastolo ostativo, cioè i condannati per reati di tipo mafioso, per terrorismo ed eversione che non intendono collaborare con la magistratura. Il tema è delicato e dalle conseguenze impreviste dopo le sentenze del 2019: prima la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva chiesto all’Italia di riformare l’intera norma sull’ergastolo ostativo, poi la stessa Consulta aveva giudicato incostituzionale il divieto di accedere ai permessi premio per i boss che non collaborano. Due crepe nella normativa che disciplina il fine pena mai per i boss irriducibili. Crepe che con la sentenza di martedì rischiano di allargarsi ulteriormente. Lanciando un segnale diretto nei bracci più blindati dei penitenziari italiani, dove sono reclusi gli ultimi uomini delle stragi: dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola.

Sulla vicenda la Consulta terrà un’udienza pubblica, visto che il 9 marzo scorso il presidente, Giancarlo Coraggio, ha riammesso la parte privata esclusa in un primo momento: a causa della restrizioni anti-Covid, infatti, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti non aveva potuto recarsi in carcere per ottenere in tempo utile la procura speciale del suo assistito, Salvatore Francesco Pezzino. “Quello che si chiede è l’opportunità di fare una valutazione sul percorso di una persona. Il cuore della questione è il diritto al silenzio, che va garantito anche nella fase esecutiva”, dice l’avvocata Araniti, spiegando che “il nostro ordinamento garantisce all’imputato la possibilità di non autoaccusarsi. Quindi un soggetto non può essere costretto a collaborare a tutti i costi per uscire dal carcere. Poi se la collaborazione c’è ben venga, soprattutto se è sincera“.

Penalista di grande esperienza, l’avvocata Araniti è figlia di Santo Araniti, considerato uno degli storici boss della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lodovico Ligato, l’ex deputato della Dc e presidente delle Ferrovie dello Stato assassinato nel 1989. Nel marzo del 2019 Araniti senior è finito di nuovo sui giornali, perché la procura di Reggio Calabria lo aveva inserito tra gli indagati della nuova inchiesta sull’omicidio di Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale della Cassazione ucciso nel 1991, quando stava preparando la richiesta di rigetto dei vari ricorsi dei superboss di Cosa nostra condannati al Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Mio padre ha chiesto la revisione e ha avuto tre annullamenti dalla Cassazione per l’omicidio Ligato. Abbiamo fatto ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo, vedremo come andrà a finire. Ma questa è una vicenda privata, non c’entra niente con la questione della Consulta dove io interverrò da semplice avvocata”, dice la figlia, sottolineando come il suo genitore non beneficerebbe di una eventuale sentenza favorevole della Consulta. “Il reato per il quale è stato condannato mio padre risale all’89 invece la normativa è a partire dal ’91 e i tribunali hanno decretato il divieto di retroattività della legge più sfavorevole”. In carcere dal 1994, al 41bis fino al 2008, Araniti senior ha già scontato 26 anni e mezzo di carcere: dunque, potrebbe già chiedere la libertà condizionale. Ma non lo ha ancora fatto. “Aspettiamo la decisione sulla revisione e poi vedremo”, dice la legale. Che sull’udienza della Consulta ha buone sensazioni: “I presupposti ci sono, però poi bisognerà vedere cosa ne penserà la corte. È sbagliato dire che in caso di sentenza favorevole escono tutti i soggetti condannati per mafia, non è così. Quello che si chiede è l’opportunità di valutare il percorso di una persona, tutti possono essere rieducati senza pretendere la collaborazione a tutti i costi“.

A considerarsi rieducato, pur senza aver collaborato con la giustizia, è nella fattispecie il suo cliente, Salvatore Francesco Pezzino, mafioso di Partinico, in provincia di Palermo. Condannato per mafia e omicidio, ha trascorso in totale 30 anni da carcerato: nel 1999 aveva ottenuto la semilibertà, salvo poi perderla nel 2000 quando era finito sotto accusa di nuovo per altri reati. Considerato un “detenuto modello“, nel 2018 Pezzino ha chiesto al Tribunale di sorveglianza de L’Aquila di riconoscergli la libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che hanno scontato 26 anni di carcere, salvo, appunto, quelli condannati per reati di mafia che non hanno collaborato con la giustizia. Un divieto previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, e dal decreto legge 306 del 1992, ispirato da Giovanni Falcone già con un decreto dell’anno precedente, e approvato dopo la strage di Capaci per provare a rompere la breccia di omertà di Cosa nostra, all’inizio della stagione delle bombe.

È per questo motivo che il tribunale di sorveglianza dell’Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta di Pezzino. Il quale, però, ha fatto ricorso alla Cassazione. E la Suprema corte ha sollevato eccezione di costituzionalità, sostenendo che con la negazione della libertà condizionale agli ergastolani ostativi si realizza “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento”. In parole semplici: visto che il fine del carcere è il reinserimento del reo nella società, è legittimo escludere dal beneficio della libertà vigilata i detenuti per reati di mafia solo perché non collaborano? La mancanza della collaborazione basta per considerare a priori un mafioso come ancora pericoloso per la società, nonostante siano passati molti anni dalla condanna? O forse ogni vicenda deve essere valutata singolarmente, caso per caso? E come deve fare il giudice a capire se un mafioso ha davvero rotto con il suo clan di riferimento, se non valutando un persorso di collaborazione?

A queste domande dovrà rispondere la Consulta dopo aver ascoltato l’avvocata Ettore Figliolia, che rappresenta lo Stato, costituito in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo per decisione del precedente esecutivo. Allegate al fascicolo anche le memorie dell’associazione Antigone, del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, de l’Altro Diritto, di Macrocrimes, di Nessuno Tocchi Caino: parteciperanno all’udienza, seppur in forma cartolare, dopo il parere positivo del giudice relatore Nicolò Zanon. Eletto al Csm nel 2010 su indicazione del Popolo delle Libertà, poi nominato alla Consulta da Giorgio Napolitano, Zanon ha fatto da relatore anche alla sentenza che nell’ottobre del 2019 definiva incostituzionale la parte dell’articolo 4bis sul divieto di accesso ai permessi premio, cioè il primo gradino dei benefici penitenziari, per i condannati all’ergastolo ostativo che non hanno collaborato con la magistratura. All’epoca alla Consulta sedeva anche Marta Cartabia, oggi guardasigilli di un governo che dovrà riscrivere l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Lo ha chiesto la Cedu nel 2019, potrebbe chiederlo la Consulta con la sentenza di martedì. Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla giustizia di Forza Italia, spiega che l’esecutivo attenderà la corte costituzionale “per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario”. Sulla libertà condizionale per i boss, il berlusconiano spiega come la pensa: “Un elemento ostativo non può derivare da una scelta processuale di collaborare o non collaborare. L’ergastolo non deve essere legato alla collaborazione con la giustizia: io posso non collaborare ma aver rescisso i rapporti o collaborare e non averli rescissi”.

Attendono la decisione della Consulta anche 1.271 detenuti al “fine pena mai” che vorrebbero accedere alla libertà condizionale pur non collaborando con la giustizia. Tra questi ci sono sicuramente i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss che custodiscono i segreti delle stragi del ’92 e ’93. Condannati all’ergastolo per le bombe che uccisero Falcone e Borsellino, per gli ordigni esplosi nel 1993 a Roma, Milano e Firenze, per l’omicidio del sacerdote don Pino Puglisi, si trovano in carcere dal 1994 ma sono ancora relativamente giovani: Filippo 59, Giuseppe 56. “Lui ha ancora una speranza“, ha detto recentemente – riferendosi al secondo – Salvatore Baiardo, l’uomo che ha curato la latitanza dei Graviano nel Nord Italia nei primi anni ’90. “Che speranza?”, ha chiesto l’inviato della trasmissione Report. “Che l’ergastolo venga abrogato. Quella è ancora l’unica sua speranza”, è stata la risposta di Baiardo. Sarà una coincidenza ma uno dei primi mafiosi di rango a chiedere il permesso premio, sulla base della sentenza della Consulta del 2019, è stato Filippo Graviano. Non intende collaborare con i magistrati, né svelare i misteri delle bombe, ma sostiene di essersi dissociato da Cosa nostra. Una versione che può tornare buona pure per chiedere la libertà condizionale. D’altronde i Graviano sono in carcere già da 27 anni: potrebbero bastare. Anche senza abolire l’ergastolo. Almeno, non formalmente.

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