Ci sono persone che muoiono per le quali si poteva fare di più. Molto di più. Non per tenerle in vita più a lungo. Ma per farle vivere meglio. Non perché si poteva guarirle dalle loro malattie incurabili. Ma perché si poteva dar loro dignità fino alle fine. È questo l’obiettivo delle cosiddette cure palliative e della terapia del dolore. È questo il traguardo di civiltà che abbiamo conquistato con la legge 38 del 15 marzo 2010. Undici anni dopo, però, la consapevolezza sulla prevenzione e il sollievo della sofferenza, fisica e psicologia, è ancora scarsa. Da parte di tutti. Pazienti, familiari, medici di base, ospedali, istituzioni. E l’accesso a questo prezioso servizio è a tutt’oggi fortemente iniquo. Non solo a livello nazionale, con il Nord che la fa da padrone. Ma anche all’interno di una stessa regione. “Ci sono disomogeneità imbarazzanti. È inaccettabile che il diritto a ricevere il trattamento del dolore dipenda dalla Asl di appartenenza. Purtroppo, fatta la legge non significa che il diritto sia riconosciuto per tutti”. A tirare le somme è Gino Gobber, direttore dell’unità operativa di Cure palliative dell’Azienda sanitaria trentina e presidente della Società italiana di cure palliative (Sicp). “In certi casi si tratta di inadempienza vera e propria, in altri di difficoltà oggettive nell’articolare l’offerta in territori montuosi e spopolati” continua. Qualsiasi sia la causa del ritardo, il diritto a non soffrire più inutilmente deve essere garantito al più presto a tutti i cittadini. “Investire nelle cure palliative vuol dire anche rendere più sostenibile il nostro Servizio sanitario nazionale – ricorda il medico -. La mancata risposta ai bisogni del paziente in fase terminale provoca il ricorso a ospedalizzazioni inappropriate, a tanti esami che non servono e a un’ostinazione terapeutica dannosa per il suo benessere”. Il risultato è che ci sono ancora tanti malati, soprattutto di cancro, che si spengono nella solitudine di un reparto di ospedale anziché nella propria casa tra l’affetto dei cari. Tra i deceduti per tumore, prendendo il triennio 2013-2015 (l’ultimo disponibile nella più recente Relazione al Parlamento sul tema, che risale ormai al 2019), quelli assistiti dalla rete di cure palliative a domicilio o in hospice sono stati il 25 percento.

Che cosa sono – Per cure palliative si intende l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali rivolti alla persona la cui malattia è caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non rispondendo più a trattamenti specifici. “Il fine non è più la guarigione ma il controllo dei sintomi, l’alleviamento del dolore e l’accompagnamento del malato nelle scelte terapeutiche e del luogo dove stare. Come ricorrere o meno a un ventilatore, in hospice o a casa propria”, chiarisce Gobber. È previsto un supporto sociale, spirituale e psicologico sia al paziente sia al nucleo familiare. I parenti, per esempio, vengono informati e guidati nel percorso per ottenere l’indennità di accompagnamento e l’assegno di invalidità. E aiutati nell’accettare la malattia e rielaborare il lutto.

Le cure palliative devono poter essere erogate in qualsiasi setting assistenziale. I nodi della rete sono: presidi ospedalieri, hospice, strutture residenziali (per anziani o disabili) e domicilio. “L’hospice è la soluzione per chi ha bisogno di un’assistenza più complessa, o in assenza di un caregiver, oppure per un ‘ricovero di sollievo’ in supporto al caregiver o in attesa di organizzare gli spazi domestici per le nuove esigenze del paziente dopo un ricovero ospedaliero” precisa Gobber. L’equipe deve avere specifiche competenze nel campo delle cure palliative e nella terapia del dolore ed essere formata dalle seguenti figure professionali: medico di medicina generale, specialista (oncologo, anestesista, geriatria, neurologo o radiologo), infermiere, psicologo e assistente sociale. “La disponibilità assistenziale deve essere h24, tramite consulenza telefonica o diretta”, evidenzia il presidente della società scientifica. “È l’unica rete clinica articolata anche a livello domiciliare e potrebbe essere un volano per tutte le cure croniche”, è l’appello che continua così: “Chiediamo che Regioni e aziende sanitarie diano pieno compimento alla normativa nazionale, soprattutto a livello domiciliare, l’anello della rete più debole. Servirebbe inoltre una cartella clinica informatizzata, se le informazioni non sono disponibili a tutti gli operatori subito, si perde tempo e l’assistenza rischia di essere meno efficace”.

A chi sono destinate – Hanno diritto agli interventi palliativi tutti i pazienti in fase terminale, e quindi irreversibile, di ogni malattia cronica ed evolutiva. Non solo il cancro dunque (benché i malati oncologici continuino a rappresentare la parte più consistente), ma anche le malattie neurologiche, respiratorie, cardiologiche, l’insufficienza renale. Lo scopo è garantire al paziente la massima qualità possibile di vita in tutte le fasi della malattia, incluse quelle precoci (si parla infatti anche di “cure palliative precoci” somministrate insieme a trattamenti curativi), fino all’ultimo respiro.

Criticità e reti carenti – “Gli specialisti in cure palliative sono carenti e manca informazione. Medici di base e Asl fanno poca richiesta di questi interventi rispetto ai reali bisogni della popolazione, la maggior parte degli invii in hospice proviene dagli ospedali, con il risultato che i malati fragili sul territorio vengon lasciati a loro stessi – denuncia Francesco Nigro Imperiale, oncologo e coordinatore per la Calabria della Società italiana di cure palliative -. Spesso si pensa che l’attivazione dell’adi, cioè dell’assistenza domiciliare integrata, sia sufficiente e invece c’è differenza. Il team palliativista deve riconoscere il livello di sofferenza del paziente, anche quando non è cosciente o non usa più la parola, e deve saper impiegare la sedazione palliativa per tutti i sintomi refrattari, cioè che non rispondono alle terapie, inclusi quelli precoci, per la gestione del dolore e del fine vita. Un gesto dell’occhio, una smorfia del viso, la rigidità muscolare, la valutazione del respiro, movimenti irrequieti del corpo, le ginocchia piegate sono tutti segnali che lo specialista deve essere in grado di interpretare per stabilire il grado di dolore e una sedazione mirata”. Laddove non arriva il pubblico, c’è il privato accreditato. “Molti hospice convenzionati con la sanità pubblica hanno attivato delle unità a domicilio”. Anche l’alleanza con il terzo settore è indispensabile. “Senza l’aiuto di associazioni e fondazioni no profit alcune realtà sarebbero scoperte. Questi enti mettono a disposizione l’auto per l’assistenza domiciliare, pagano l’infermiere, lo psicologo o il medico, e organizzano corsi di formazione”, conclude Gobber.

Il deputato e medico M5s Giorgio Trizzino, con un emendamento al decreto Rilancio, ha promosso a partire dall’anno accademico 2021-2022 l’istituzione della prima scuola di specializzazione in Medicina e Cure palliative e di un corso ad hoc all’interno della specialità pediatrica. “Il mio auspicio – spiega al ilfattoquotidiano.it – è che prima o poi la Medicina palliativa diventi materia di studio in tutte le scuole di specialità. Tutti i medici, dal chirurgo al rianimatore, devono avere cognizione del dolore umano e del limite del proprio approccio terapeutico, devono cioè sapere quando fermarsi. E poi – aggiunge -, bisogna puntare a vincolare l’1,5 per cento del Fondo sanitario nazionale per le cure palliative in modo che le Regioni siano obbligate a garantirle su tutto il territorio. Troppi cittadini ne ignorano ancora l’esistenza e purtroppo anche tanti medici. Non possiamo più limitarci a salvare vite, va riconosciuta anche qualità e dignità alla persona e questo aspetto è stato trascurato nei malati di Covid”.

Le cure palliative pediatriche: queste sconosciute – In ambito pediatrico le cure palliative sono maggiormente penalizzate. La causa? I pediatri e gli infermieri esperti sono del tutto insufficienti e le famiglie poco sensibilizzate. “Appena il 5 per cento dei bambini con bisogni di cure palliative, da quando c’è una diagnosi di inguaribilità, vi accede a livello nazionale. E il 15 per cento è per i bambini in fase terminale – dichiara Franca Benini, responsabile dell’hospice pediatrico del policlinico universitario di Padova e membro della commissione cure palliative del ministero della Salute -. C’è un gap tra domanda e posti letto disponibili negli hospice. Servono più posti e una rete periferica: più riusciamo a dare sollievo alle famiglie attraverso l’assistenza domiciliare meno saranno i ricoveri”. Luca Manfredini, direttore dell’hospice pediatrico dell’ospedale Gaslini di Genova, spiega: “Per un limite culturale in Italia le cure palliative vengono associate soltanto al fine vita. Per questo motivo ci sono genitori che fanno fatica ad accettare la presa in carico del proprio figlio durante il corso della malattia”. I bambini destinatari del servizio in realtà, continua Manfredini, “sono tutti quelli con una diagnosi di inguaribilità, bisogni assistenziali complessi e a rischio di vita o per progressione della malattia di base o per complicanze legate alla stessa”. Si tratta soprattutto di casi di patologia onocologica, di malattia metabolica genetica, encefalopatia epilettica, tetraparesi spastica o paralisi cerebrale. “In questo momento su quattro posti letto uno è occupato da un bambino con il cancro e gli altri tre da malati rari – afferma il responsabile dell’hospice genovese -. E su 60 pazienti che seguiamo in un anno, solo 15 hanno una patologia oncologica. Grazie al progresso nelle cure ci sono più pazienti che sopravvivono ma hanno nuovi bisogni assistenziali”. Il tempo di presa in carico può durare tutta la vita: “Un anno e mezzo in media per un caso di tumore, fino al compimento dei 18 anni o per tutta la vita per i pazienti non oncologici la cui malattia è insorta in età pediatrica – informa Manfredini -. Il nostro compito consiste nella gestione del dolore e di tutti gli altri sintomi disturbanti, come fatica respiratoria e astenia, nell’assicurare un’adeguata alimentazione, per via venosa o tramite sondino se il bambino non deglutisce, nel favorire il reinserimento scolastico e sociale”. I medici devono essere pronti a rispondere a domande impegnative aiutando i genitori a trovare un senso nella tragedia. Per Manfredini è un insegnamento spirituale: “Perché è successo a mio figlio? Ci chiedono, e noi dobbiamo insieme a loro trasformare il limite in una risorsa, spostando l’obiettivo sugli aspetti che si possono modificare. Se ad esempio il bambino ha un’invalidità alle gambe non può giocare a calcio ma può diventare un campione di scacchi”.

Articolo Precedente

“Temo di non finire gli studi”, “vorrei una casa”: paure e desideri dei rifugiati siriani a dieci anni dall’inizio della guerra. Il video dell’Unhcr

next
Articolo Successivo

Ragazzi LGBT+, quando a bullizzare è la scuola

next