In Italia la lirica parla altre lingue e guadagna sempre meno. Questo è il quadro presentato da Gianluca Floris, presidente di Assolirica, associazione professionale che riunisce cantanti, registi, direttori d’orchestra e costumisti. La pandemia li ha bloccati e molti di loro sono ora costretti a cambiare mestiere. Soprattutto i giovani. Alcuni diventano rider. “E sono già pochi rispetto a quando ho iniziato io nel 1991. Al giorno d’oggi un direttore d’orchestra di 50 anni è considerato non in età”, spiega Floris. “Sembra un paradosso. Eppure è così: lavorare in questo settore è sempre più difficile e stiamo perdendo intere generazioni, che si allontanano dalla disciplina perché non riescono a mantenersi”.

È il caso di Roberta (nome di fantasia) e suo marito. Entrambi cantanti, 34 e 35 anni. Si sono sempre mantenuti con la lirica. Poi è arrivata la pandemia: “Da dicembre il mio compagno lavora in un’azienda. Io invece da marzo 2020 sono insegnante di sostegno a scuola. Ci siamo reinventati in qualche modo perché non c’erano alternative. In un anno ho perso oltre 22mila euro”, racconta. Il suo calendario prima era scandito da rappresentazioni, ora è rimasto vuoto. “Abbiamo avviato le pratiche per avere i rimborsi, per adesso restiamo in attesa”. Il periodo difficile si innesta su un terreno già complesso: “Prima della pandemia capitava di essere pagati in ritardo e di sviluppare crediti. Se avessi avuto subito i soldi che mi spettavano avrei vissuto questi mesi con meno difficoltà. Ma a volte ho dovuto aspettare anche un anno, un anno e mezzo”. Ora Roberta spera di tornare a cantare in autunno. Fra settembre e ottobre è stata rinviata una rappresentazione per la quale era già stata scritturata.

Una vicenda analoga è quella di Francesca (altro nome di fantasia). Musicista e cantante lirica da quando ha 18 anni. Ha sempre vissuto solo del suo lavoro, cominciando ai tempi del conservatorio. Ora ne ha 37 e si è iscritta all’università. Scelta non casuale: “Non sto più lavorando e non volevo restare senza fare nulla, rischiavo di impazzire. Ero abituata a una routine veloce. All’improvviso mi sono ritrovata a casa, senza un obiettivo”. Nel 2019 la sua agenda contava 15 recite in un anno, dopo si è fermato tutto. Al momento, dice, non è prevista una ricollocazione per i contratti cancellati e le prospettive sono vaghe. “A mio parere questa crisi colpisce proprio la mia generazione. Avevamo appena finito una gavetta durata 10-15 anni e stavamo per intraprendere una fase migliore della carriera. Ma non è detto che succederà. Quando si tornerà alla normalità, il mio tempo sarà forse già passato. I teatri potrebbero prendere cantanti più giovani di me e con meno esperienza, per pagarli meno. Un processo pericoloso che rischia di impiegare manodopera di alto livello a basso costo”. Francesca è riuscita ad accedere ai ristori, anche se non tutti per via di alcune limitazioni di reddito. “Questo lavoro per me significa tutto: ho anche rinunciato all’idea di avere un figlio per portarlo avanti. Per fortuna mio marito si occupa di altro e non fa il cantante. Le coppie di colleghi hanno dovuto fare molti più sacrifici: i risparmi, dopo un anno, finiscono”.

Il Covid, si sa, ha chiuso i teatri. “Ma questi ultimi hanno potuto utilizzare il Fus, il fondo unico per lo spettacolo. Viene erogato ogni anno dallo Stato e consente alle realtà teatrali di finanziare le produzioni. Fondi che però non spettano a noi”. Perché gli artisti lirici sono lavoratori autonomi a partita Iva, il cui guadagno lordo va a recita e varia a seconda del ruolo ricoperto – chi ha la parte da protagonista prende di più, gli altri meno – e va comunque più che dimezzato. Devono infatti pagarsi vitto, alloggio e trasferta per ogni tournée.

Come dicono le vicende di Roberta e Francesca, dall’inizio della pandemia si sono susseguite le cancellazioni di rappresentazioni teatrali e – quindi – di impegni contrattuali. Il punto sta qui. “Non esiste una regola o una linea guida che disciplini i ristori o i rimborsi per gli spettacoli annullati in corsa o poco prima delle prove”, spiega Floris. “Tutto è demandato al buon cuore di ogni singolo sovrintendente. Alcuni sono stati molto disponibili e ci hanno aiutato, ma si tratta di buon cuore, non di paletti giuridici”.

I ristori, dice Floris, non sono arrivati subito. “Poi, una volta avuti, alcuni paletti messi dal Mef in merito al minimo lordo necessario per accedervi hanno tagliato fuori molti di noi”. Il problema, spiega, è la mancanza di regolamentazione. “Siamo ibridi. Detto meglio: non abbiamo un inquadramento lavorativo preciso. Da un lato lavoriamo come autonomi, perché abbiamo partita Iva, non siamo assunti e veniamo pagati a recita. Dall’altro, abbiamo i tipici legami da dipendente: seguiamo gli orari e i tempi imposti dai teatri”, spiega. Quanto ai pagamenti, c’è un grande problema: “Non c’è un tetto minimo. Significa che un giovane agli inizi può prendere anche pochissimo”. Dal 2005-2006, ricorda Floris, i compensi più bassi hanno cominciano a scendere progressivamente. “E ora questo settore parla sempre di più lingue straniere. Russo, Inglese, Tedesco”.

E poi c’è la pensione. “Al momento non abbiamo ristori per i contributi previdenziali persi. Siamo fermi da un anno e non ci è ancora stato detto se avremo la possibilità di recuperare le contribuzioni pensionistiche. In quanto autonomi le otteniamo solo quando lavoriamo”.

Questo contesto coinvolge un numero indefinito di persone – circa 500 forse – che resta impreciso proprio perché non esiste un censimento ufficiale. “Purtroppo la lirica non è considerata cultura, ma intrattenimento. A nostro avviso non è giusto. Per esempio, non si può chiedere agli Uffizi di sostenersi solo in base alle vendite dei biglietti giornalieri, come fossero spettacolo. Non lo sono. Sono cultura. Così come lo è il mondo della lirica”.

Intanto, c’è anche chi continua a lavorare, pur con tutti i rischi e le difficoltà del periodo. Fra di loro c’è il baritono milanese Paolo Bordogna, classe 1972 e una carriera internazionale: “Nel corso dei mesi ho notato una disparità fra teatri italiani ed esteri. È capitato che i secondi mi dessero indennizzi per i contratti cancellati, mentre in Italia no”. Le rappresentazioni si svolgono in streaming, una soluzione che – dice – non aiuta lo stipendio. Riduce infatti le recite, lasciando spesso intatte le giornate di prova: “Che non ci vengono pagate”. Prima del Covid queste ultime erano in qualche modo ammortizzate perché ogni contratto prevedeva un numero alto (o medio alto) di rappresentazioni. “Con lo streaming andiamo invece in perdita: un solo spettacolo, ma il periodo di prova è lo stesso. Giorni per i quali ci esponiamo al rischio senza ottenere alcun guadagno”, precisa Bordogna. “Così facendo, lavorano solo i grandi nomi e gli altri restano purtroppo tagliati fuori”.

La rincorsa alla sicurezza è scandita da un tampone dopo l’altro: “Ne faccio uno prima di ogni recita e poi un altro quando torno a casa, per il bene della mia famiglia. Quasi sempre li pago di tasca mia”. A questo si aggiunge, come è immaginabile, una condotta di vita molto attenta: limitare l’uso dei mezzi, evitare luoghi troppo frequentati.

A differenza dei mesi passati si intravede ora una riapertura, il 27 marzo. “Faccio mie le parole di Carlo Fontana, presidente Agis – l’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, ndr – e dico che accogliamo con favore questa decisione, ma è importante mettere gli artisti al sicuro. Noi non possiamo cantare con la mascherina, così come non può utilizzarla chi suona gli strumenti a fiato. Per questo chiediamo che gli artisti vengano inseriti in una campagna vaccinale, senza che rubino il posto alle categorie più a rischio”.

Assolirica, insieme ad altre associazioni di categoria, ha scritto una lettera al Ministero dei Beni Culturali per chiedere alcuni interventi in merito alla propria condizione. “Prima di tutto, un pronunciamento chiaro su come devono essere compiuti i risarcimenti per il lavoro perso a causa dei contratti cancellati per colpa della pandemia. Al Ministero del Lavoro chiediamo inoltre un chiarimento sulla nostra condizione lavorativa: se siamo autonomi allora dovremmo esserlo anche per quanto riguarda gli orari. Se siamo dipendenti vorremmo maggiori tutele”.

(immagine d’archivio. Attila di Verdi, prima della Scala, 7 dicembre 2018)

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