Colin Crouch, nel suo libro Postdemocrazia (2003), ha ben illustrato le trasformazioni strutturali dello Stato e della democrazia nell’era neoliberale, individuando nell’impresa e nel suo crescente potere politico il motore di tali trasformazioni. La progressiva privatizzazione delle funzioni dello Stato e l’adozione del modello aziendale come schema organizzativo delle istituzioni pubbliche rappresentano le impronte più visibili di questo processo, il quale tende a cancellare perfino “le distinzioni ottocentesche tra l’etica del servizio pubblico e quella dell’economia privata basata sul profitto” (p. 112). L’ideologia che sorregge il cambiamento è quella che attribuisce ogni possibile saggezza e lungimiranza all’impresa, mentre l’ente pubblico è considerato “una sorta di idiota istituzionale” (p. 53).

Le coordinate scientifiche utilizzate da Crouch per raffigurare l’attuale condizione di sudditanza del pubblico nei confronti del privato rischiano, però, di apparire obsolete davanti all’iniziativa del governatore dello Stato del Nevada, Steve Sisolak, membro di rilievo del Partito Democratico statunitense. Pochi giorni fa, nel nome del progresso e dello sviluppo economico, egli ha annunciato di voler presentare un disegno di legge che autorizzi le grandi imprese hi-tech a svolgere le funzioni dei governi locali. I requisiti da soddisfare sono:

1) l’acquisto di almeno 50mila acri di terreno non coltivato e disabitato;

2) un capitale non inferiore a 250 milioni di dollari;

3) l’investimento di un miliardo di dollari in dieci anni.

In queste aree private, denominate “innovation zones”, le grandi imprese tecnologiche potranno svolgere le funzioni di governo, ossia imporre tasse, gestire scuole, costruire tribunali e carceri, provvedere all’erogazione di servizi pubblici, etc.

Sisolak, durante l’annuncio del disegno di legge, ha specificatamente nominato come possibile candidato il colosso Blockchains, il quale – casualmente – già diversi mesi fa avrebbe comprato un vasto terreno a est di Reno per sviluppare una “smart city” interamente fondata sulla propria tecnologia.

Naturalmente, in una smart city l’adozione del modello di governo tradizionale è ritenuto impensabile. Non sarebbe sufficientemente smart. Nel testo di accompagnamento del disegno di legge si afferma, infatti, che il modello dei governi locali esistenti appare “inadeguato a fornire la flessibilità e le risorse necessarie per fare dello Stato un leader nell’attrarre e trattenere nuove forme e tipi di imprese nonché nel promuovere lo sviluppo economico nel settore delle tecnologie emergenti e delle industrie innovative”. Infine, nel testo si aggiunge che questa “forma alternativa di governo locale” sarebbe indispensabile per lo sviluppo economico dello Stato.

Non sappiamo se il disegno di legge sarà approvato o se subirà modifiche. Il tempo ce lo dirà. Ciò che di sicuro sappiamo è che quanto viene ora spacciato per nuovo (o “smart”) è già stato sperimentato, e senza alcun beneficio per i cittadini-lavoratori.

Richard Sennett, nel suo libro Autorità, ha ampiamente descritto le company towns costruite nel corso del primo sviluppo industriale, sia in Europa che negli Stati Uniti. La città-azienda – dove il proprietario dell’azienda era anche il proprietario delle abitazioni, delle strade e dei negozi della città – si fondava sul paternalismo, sulla sovrapposizione della figura del “padrone” a quella del “padre”. Alla base della nascita di queste realtà, spiega Sennett, c’era non solo la necessità delle aziende di aumentare la produttività, ma anche l’obiettivo di costruire un soggetto-lavoratore funzionale alle loro esigenze. Tale soggetto, infatti, era costantemente controllato nei suoi comportamenti sociali, nei consumi, negli affetti, nel tempo libero.

Assai efficaci sono, in questo senso, le parole di George Pullman, padre-padrone della “città Pullman”, costruita nei sobborghi di Chicago verso la fine del XIX secolo e riportate nel libro di Sennett: “Se avessi venduto le abitazioni ai miei lavoratori all’inizio dell’esperimento, avrei corso il rischio di assistere all’insediamento di famiglie non sufficientemente avvezze ai costumi che voglio sviluppare negli abitanti della città di Pullman” (p. 59).

La dottrina dell’autorità in loco parentis, insomma, è vecchia quanto le primissime fabbriche e non stupisce che anche i colossi tecnologici, nel momento in cui nuovi paradigmi organizzativi si impongono (come conseguenza della digitalizzazione dei processi produttivi), vogliano costruire il loro “smart citizen”. Ciò che di innovativo c’è nella proposta del governatore del Nevada è la totale sostituzione del potere pubblico da parte di quello privato. In questo caso, più che dello Stato che si fa impresa si deve parlare dell’impresa che si fa Stato, oppure, per parafrasare Peter Sloterdijk, di un “mondo dentro il capitale”.

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