I monoclonali prodotti in Italia da oggi finiscono in Germania, partendo sempre da Latina. Il ministro tedesco della Salute Jens Spahn domenica ha fatto sapere che il governo di Angela Merkel ha acquistato 200mila dosi di anticorpi monoclonali che saranno negli ospedali universitari tedeschi a partire da questa settimana, senza aspettare l’autorizzazione dell’Ema. Berlino ha investito 400 milioni di euro per accaparrarsi sia il Casirivimab /Imdevimab della Regeneron che il Bamlanivimab della Eli Lilly, gli unici due trattamenti autorizzati al mondo per la cura del Covid. La decisione ha a che fare anche coi ritardi sulle forniture di vaccini perché – ha spiegato lo stesso Spahn alla Bild – “gli anticorpi neutralizzanti funzionano come una vaccinazione passiva, e sono particolarmente indicati per soggetti ad alto rischio”. La notizia è passata in secondo piano, ma è l’ennesima sberla sul fronte delle cure anticorpali negate nel nostro Paese.

Potevamo essere noi i primi in Europa. Per ragioni poco comprensibili però l’Italia ha deliberatamente ignorato la strada dei monoclonali già in commercio, lasciando cadere nel vuoto anche l’occasione di sperimentarli, gratuitamente, già a partire da novembre nella misura di 10mila dosi a beneficio di altrettanti pazienti italiani. L’Italia ha però investito l’equivalente di Berlino (380 milioni di euro) in un progetto tutto italiano, quello di Toscana life sciences (Tls), che è molto promettente ma ben lontano dalla produzione (non ha ancora iniziato gli studi clinici).

L’arrivo all’Aifa di Giorgio Palù, da sempre pro terapie anticorpali, ha aperto uno spiraglio tra le resistenze opposte dall’Aifa e (di sponda) dal ministero della Salute. “A breve anche in Italia parte la ricerca sugli anticorpi monoclonali”, aveva scandito alle agenzie il 15 gennaio, dando il segnale della svolta. Ma l’Aifa si precipitava a rettificare così il suo stesso presidente: “Nessuna sperimentazione, solo un bando per lo studio randomizzato”. Dunque, mentre la Germania si compra i monoclonali fatti in Italia, l’Italia è ancora allo studio propedeutico a una qualche sperimentazione. Che richiederà mesi. Il tutto mentre il Premier Conte in persona, nel suo discorso al Senato per la fiducia, auspicava la sperimentazione in tempi rapidissimi. Ma evidentemente non siamo in Germania. La mossa della Merkel pone ora anche un problema di approvvigionamento, perché la capacità dello stabilimento di Latina è limitata a 100mila dosi al mese. L’Italia che dovesse accodarsi potrebbe restare a secco, regalando ai suoi malati la riedizione nostrana del caos sui vaccini: chi si muove tardi e male lascia ad altri l’agio di accapparrarsi le dosi.

Con la decisione di Berlino crolla un po’ tutto il castello di riserve eretto dall’Aifa sotto il profilo scientifico e regolatorio. L’agenzia del farmaco ha sostenuto da subito (e ancora oggi) la mancanza di riscontri sull’efficacia di queste terapie, come se gli americani fossero pazzi ad accaparrarsi subito un milione di dosi, seguiti poi dal Canada, Israele e altri fino alla stessa Germania. Ancora oggi lo sostengono, nonostante ulteriori studi certifichino risultati importanti dopo quello di Fase2 condotto tra marzo e aprile che indicava come il Bamlanivimab, somministrato precocemente a pazienti ad alto rischio abbatta quello di ospedalizzazione dell’80%. Nei giorni scorsi sulle riviste scientifiche the New England Journal of Medicine e JAMA sono stati anticipati e analizzati i dati su due ulteriori studi condotti su pazienti non ospedalizzati. Lo studio di prevenzione di Fase 3 BLAZE-2 condotto nelle case di cura attesta anche una riduzione del rischio infettivo fino all’80% per i residenti delle strutture. A conferma di un possibile uso del monoclonale a scopo di immunizzazione preventiva.

Non a caso la Germania si è mossa, senza attendere l’Ema, proprio nel momento di crescente frustrazione per un’introduzione più lenta del previsto dei vaccini nell’UE. E siamo all’aspetto regolatorio, l’altra foglia di fico. “Finché non autorizza Ema non lo facciamo neanche noi”, era la risposta burocratica dell’Aifa, contestata per altro da ex direttori della stessa. In ultimo, Luca Pani che così risponde da gli Stati Uniti dove i monoclonali vengono impiegati con successo da almeno sei mesi. “L’AIFA poteva far presente al Ministro la necessità di autorizzare questi anticorpi ex comma 3 art. 5 del Dlgso. 219/2006 esattamente come aveva già fatto nel caso dell’infezione da Ebola nel 2015. Ovvero in una situazione milioni di volte meno complicata di quella presente. Personalmente autorizzai e firmai 6 ordinanze per altrettanti farmaci salvavita non autorizzati e non in commercio in quel momento. Ci vollero 48 ore”.

La decisione della Germania riaccende domande rimaste senza risposta: perché in Italia si parla da marzo di monoclonali ma non si usa ancora un monoclonale che sia uno? Perché la vicenda del trial pragmatico gratuito della Eli Lilly è stata taciuta fino allo scoop del Fatto? Perché mentre Conte in persona, e lo stesso presidente di Aifa, auspicano la rapida sperimentazione, l’Agenzia si premura di smentire e precisare che siamo ancora allo “studio”? Perché un paziente italiano affetto da Covid dovrebbe parteciparvi, col rischio di assumere il placebo al posto del farmaco che viene convintamente somministrato a un tedesco per la cura? Chi ha deciso di ignorare i farmaci disponibili per dirottare grandi investimenti pubblici sulla ricerca “made in Italy” ancora lontana alla fase di studio? Se lo chiedono non una ma quattro interrogazioni parlamentari seguite alle rivelazioni del nostro quotidiano. Se ne aggiunge una: chi pagherà mai per le possibilità di cura negate agli italiani e già disponibili per altri? Qualcuno se ne assume la responsabilità?

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